Andai a trovare mia madre.

Non so perché presi la decisione, forse per farla smettere di dire “vieni a trovarci”, con una supplica dentro quei plurali o forse perché tutti, in quel momento, chi espressamente, chi tacitamente, la disapprovavano.

Mio padre non proferiva parola sul conto di lei. Sapevo che i rapporti si erano complicati e ormai fra i due la comunicazione si era ridotta a poche parole congelate. Entrambi avevano relazioni di coppia importanti, si stavano “rifacendo una vita”, per usare una frase della nonna che si esprimeva così, quando raccontava di qualcuno separato o vedovo che proseguiva la sua vita. In coppia con qualcun altro. La frase implicava un certo rammarico per lo scomparso o l’ex, ma subito dopo un “Ohi, la vita va avanti”, giustificava la possibilità di un’altra scelta.

Mentre i miei genitori si rifacevano una vita, io ne cercavo una mia, che non fosse necessariamente un loro derivato. Non litigavano più tra loro ed era come se fosse calato un muro che lasciava passare solo poche, inutili frasi.

Mio padre, con il quale ero cresciuta, non si lamentava più con me di mia madre, della sua superficialità, dell’inadeguatezza e dell’egoismo. Taceva o si limitava a rare e laconiche comunicazioni del tipo: “Ha chiamato tua madre”, dette per caso, mentre era in procinto di andare da qualche altra parte, in modo che non gli ponessi domande inopportune. Quando gli comunicai la decisione di andarla a trovare, faticò a trattenere la sorpresa. Aggrottò per un attimo la fronte.

“Ti dispiace?”. Glielo chiesi più per cortesia che per reale intenzione di discuterne, se mai ce ne fosse stato bisogno. Non volevo più problemi da mio padre.

Nonostante l’ombra che gli vidi passare sugli occhi, ero certa che non si sarebbe opposto come un ragazzino geloso. Sapevo però di chiedergli tanto. Sapevo ciò che tutti i figli di separati,o quasi, sanno. Ogni volta che dai un segno di affetto o considerazione al genitore che non ti ha tenuto con sé, devi fare in modo che l’altro non s’irrigidisca. Ero intenzionata a far visita a mia madre, ma chiesi lo stesso il parere di mio padre, che ingoiò il rospo ed evitò di incazzarsi.

“Per quanto tempo resti via?” La buttò sul pratico.

“Non so, tre o quattro giorni ”

“Non mi dispiace … Piuttosto, pensavi di passare il Natale con lei?”.

“No. Per Natale sarò qui, pensavo magari… di andare qualche giorno, prima delle feste, poi sinceramente non mi va di festeggiare con loro”. Conclusi, accennando a quel “loro” che implicava la presenza del nuovo compagno di mia madre a cui nessuno dei due osava fare riferimenti concreti. Un pronome, buttato lì a caso, sottintendeva la presenza ingombrante di qualcuno che si era messo in mezzo a noi, senza obbligarci a parlarne e a prenderne effettivamente coscienza. Restare a casa quel Natale e non andare da “loro”, avrebbe dato sollievo a mio padre. Inoltre avrebbe tolto me dall’imbarazzo di restare in una casa che immaginavo fredda e poco accogliente, con mia madre che non vedevo da anni e quel suo compagno medico che, a distanza, giudicavo saccente e distaccato.

“Giusto” Fece lui evidentemente sollevato.

Non mi chiese nient’altro fino al giorno della partenza. Fece unicamente qualche asettica domanda con cui si sincerava, capivo, che fossi sempre dello stesso avviso di andarmene solo per qualche giorno.

Le festività natalizie stavano per piombarmi addosso e andare da mia madre era un diversivo, un modo per sdrammatizzarne l’attesa. Tre o quattro giorni da lei avrebbero congelato, anche solo per poco, le attese e i preparativi ai quali non desideravo affatto sottopormi.

Le feste di Natale si avvicinavano e sentivo già i primi accenni di organizzazioni eventuali. Non sapevo giustificare il fatto che, in casa mia, quelle feste fossero un rituale al quale era impossibile sottrarsi. Mi sentivo inerte, per natura e per forza di cose. Che succedesse quello che doveva succedere… Mi adattai alle richieste dell’uno e dell’altra, nella speranza di qualche raggio illuminante che mi desse un motivo per decidere qualcosa per me. Immaginavo ancora che crescere, significasse che all’improvviso una forza occulta scendesse a spazzar via le incertezze, rendendo tutto chiaro.

Mi sentivo apatica, mi paragonavo ad un sacco vuoto, afflosciato sul pavimento, inutilizzato. Ad ogni modo, a parte la fatica di prendere il treno, il mare d’inverno mi attraeva, ed essendo cresciuta fra i poeti, sapevo trarre dai paesaggi e dalle manifestazioni atmosferiche, benefici istantanei che mi estraniavano dal resto del mondo, mettendomi in pace con me stessa. Il mare d’inverno era l’ideale per deprimersi ed io adoro cullarmi in quegli stati in cui non arriva neanche un suono, in cui quello che vedi ti commuove e il nodo in gola, quasi quasi, ti da soddisfazione. La mia amica Laura era solita parlare di “quelle belle depressioni” che, togliendoti l’appetito, portano dei vantaggi anche estetici e ti fanno sentire una spanna sopra al popolo che starnazza. Condividevo sorridendo quella descrizione. Il ricongiungimento con mia madre e il mare, in quella stagione di gelo totale, erano tutto quel che mi ci voleva.

Somigliavo a mio padre in quei vuoti che seguono o precedono le ribellioni, ma non volevo più ribellarmi, né lottare contro qualcuno o qualcosa. Mi adeguavo con grazia, mentre dentro alimentavo la certezza di non voler appartenere a questo mondo, in cui gli altri erano entità che guardavo dall’alto al basso.

Negli ultimi tempi mi ero chiusa in casa, guardavo in modo fisso l’autunno fuori. Oppure scrivevo, isolandomi, giudicando gli altri, estranei, distanti e troppo comuni. Erano rari i momenti in cui permettevo a qualcun altro, che non fossi io, di avvicinarsi e condividere il mio spazio. Vivevo una soddisfazione media e per quello che concedevo, coloro che mi amavano si accostavano, accontentandosi del “meglio di niente”.

Partii con il benestare di tutti coloro che mi avevano cresciuto, anche della nonna perché “in fondo era pur sempre mia madre”e perché “comunque era una cosa da fare”.

Mentre attraversavo la campagna per raggiungere il mare, pensai a mia madre, dopo tanto tempo, calandomi nelle percezioni tattili e olfattive che la memoria mi offriva. Eravamo state così lontane in quegli anni che quasi non ricordavo la sua faccia. Immaginai di incontrarla di lì a poco come s’incontra un estraneo, senza niente da dire, senza un’emozione da dividere. Veniva piuttosto da chiedersi: “Che razza di madre ho avuto?”, ma in base al mio carattere si trattava di una recriminazione che sarebbe rimasta inespressa. Durante il viaggio non mi venne in mente nessuna domanda, non andavo per benevolenza, mi recavo da lei, dicevo a me stessa, senza crederci troppo, per riprendermi da una crisi. Ero anche un po’ curiosa di conoscere quel nuovo compagno per paragonarlo spietatamente a mio padre. Pensavo a lei, felice con il suo compagno e per una volta non andavo a sorreggerla, ad aiutarla in qualche sua fatica. Al contrario, andavo io a cercare coraggio.

Quando mia madre viveva con mio padre, tutti desideravano proteggerla da quello stato di subordinazione da lui, ma quando aveva cercato una sua autonomia, era diventata un’idiota. Dopo una fila di elucubrazioni, dall’anestesia dei sentimenti, si affacciò un’ inutile e alquanto ripetitiva teoria. Il fatto che tutti, più o meno, l’avessero giudicata, divenne uno spunto per tornare a difenderla. Mentre la distanza fra me e lei si restringeva, presi a stare dalla sua parte, dimenticando che comunque mi aveva procurato una ferita. Forse avrei dovuto rassicurarla, pensai, e magari cercarla prima. Fra le immagini che si sovrapponevano sul finestrino vidi la mia faccia: “Brava! Continua così, complimenti!”.

Mi sorse un dubbio. Avrei voluto essere più decisa, ma non ci fu niente da fare. Mi mandai all’inferno e mi sorpresi a sorridere contro il vetro non appena il treno, cambiando rotaia, uscì dal rettilineo per mostrarmi il mare. Lo guardavo farsi più vicino, più nitido, uguale a come lo ricordavo. Il mare, di cui aborrisco le spiagge gremite in estate, mi provoca un effetto estatico. Conservo ricordi di traversate, di passi lenti lunghi i moli, di rollii costanti, in balia o accanto al mare, gigante eterno, testimone nei secoli della storia degli uomini.

Mi avvicinai con le lacrime agli occhi, come ogni volta. Sentii il suo inconfondibile, straordinario odore, paragonandolo al piacere che provavo nel sentire quello di mia madre. Mi ricordai di quando le nuotavo accanto, o toccavo la stoffa dei suoi vestiti o le accarezzavo i capelli prima di dormire. Il mare, quello vero, quello lasciato in pace, quello discreto, scarsamente frequentato o abbandonato dalla gente, mi mette in sintonia con l’universo e tocca quelle corde che d’abitudine rimangono mute. Adoro quel mare e dunque mi ci avvicinai per riprenderlo, per riprendermi qualcosa che mi apparteneva. Abbassai il vetro per respirare l’aria gelida che sapeva di sale. Non pensai che il mare e mia madre fossero grembi ideali ai quali ricorrere. Mi ci immersi, senza domande e a volte, anche solo per poco, vorrei tornare a quando avevo vent’anni in cui l’incoscienza lasciava passare intensamente tutte l’emozioni, comprese quelle più belle.

Quando scesi dal treno, mi avviai verso l’atrio per uscire dalla stazione. Vidi mia madre saltar giù da una vecchia Dyane gialla con diverse ammaccature sulla fiancata. Mi ricordai del pilota maldestro che era e di cui avevamo riso. Scese di fretta, di certo era arrivata di corsa. Non potei evitare di sorriderle, perdonandole quell’abbandono di cui mi resi conto, adesso non ero più succube.

Mi parve ringiovanita. Aveva tagliato i capelli. Riusciva a tenerli legati a malapena con un laccio spesso che sembrava piuttosto una fascia più volte attorcigliata su se stessa. I capelli, di un biondo lucido naturale, avevano striature più scure rispetto all’ultima volta che l’avevo vista. Al contrario di me, mia madre aveva sempre i capelli a posto. Sotto il giubbotto scuro portava jeans arancioni e scarpe da ginnastica leggere. Neanche io, che avevo vent’anni, sarei riuscita a vestirmi così, ma lei, noncurante delle occhiate della gente, mi venne incontro lucente e impacciata.

Lanciò un urlo mentre mi abbracciava forte e le persone che erano lì, inevitabilmente, si girarono a guardare. Mi fece sentire a disagio, ma parve non farci caso e si espresse in tutta la sua gioia.

“Non ci speravo più!“ Disse piano con un sospiro e l’esuberanza del primo momento lasciò spazio a un velo leggero di commozione sui suoi occhi chiari. Capii che non si aspettava che la andassi a trovare e dunque di darle una gioia.

Salimmo sul suo Dyane per un tragitto che mi augurai breve.

Mentre l’auto prese a correre verso il mare e lei, a tratti mi parlava della sua vita, delle abitudini e di tutto ciò le veniva in mente, pensai osservandone la freschezza, che ormai non provavo più rancore. Se mai una sottile sofferenza mista a nostalgia per ciò che eravamo state e che il tempo ci aveva portato via.

Il disagio, provato inizialmente nel rivederla, lentamente prese a dissolversi per dare spazio a una curiosità sincera per quella madre di sempre, distratta e sulle nuvole, eppure diversa in quel suo nuovo percorso di storia al quale non avevo partecipato. Davanti a me, al pari dei miei pensieri, si srotolavano scene già viste in momenti lontani della vita. Gli alberghi chiusi, le assi di legno dipinto, fissati alle porte per proteggerle dal vento freddo, dal maltempo o per renderle meno accessibili ai ladri, scandivano il ritmo delle stagioni andate. Il freddo aveva già prodotto qualche danno, scolorito le tinte, spezzato qualche ramo, dando a quel luogo l’aspetto di un posto abbandonato. Tirai un sospiro come per riappropriarmi del mio tempo e di tutto ciò che avevo perduto o forse per lasciarlo andare, riconsegnandolo alla storia, alla nostra storia, che mia madre, prima di me, aveva lasciato alle spalle, sopportando il prezzo delle ferite. Avvicinandoci a casa sua, la sua casa, quella in cui io non ero ancora stata e che aveva condiviso con altri, sentii che sì, ce la potevo fare a riprendermi mia madre. Senza che questo provocasse necessariamente nuove, imperdonabili conseguenze. Né a lei né a me. Sul treno, che mi aveva condotto lì, doveva essere successo qualcosa.

Ero pronta, anche per quel nuovo compagno, diverso da mio padre, tutt’altro che asettico e molto accogliente. Soprattutto ero pronta a lasciare un capitolo di storia comune per aprirne un altro, prendendo atto, in una sola giornata, della pace che quel fine settimana stava per riservarmi.

Preparandosi a una manovra di parcheggio improbabile, prima di voltare la testa all’indietro, mia madre posò lo sguardo su di me per un momento, un breve intenso istante in cui la vidi sotto quella luce che per anni gli eventi avevano oscurato. Ricambiai quel sorriso distratto e cocciuto, senza riuscire a trattenere l’emozione che mi attraversava, senza resistere, questa volta, al tentativo spontaneo di lei, di riconquistarmi. Voltai anch’io lo sguardo, fingendo di volerla aiutare in quell’assurda manovra. Di nascosto, chiudendo gli occhi per il timore che scivolasse via prima che lo afferrassi del tutto, trattenni un pensiero affacciatosi all’improvviso. Qualunque cosa mi aspettasse, di quel viaggio a ridosso del mare, avrei conservato per sempre il ricordo lieve e potente, per tutta la vita, e di certo ne avrei scritto qualche pagina.

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