Nel sogno tenevo Mario, il più piccolo dei miei fratelli, sollevato. Avrà avuto cinque o sei anni. Lo tenevo in braccio perché non si bagnasse nonostante l’acqua fosse bassa. L’ho tenuto stretto fino ad assicurarmi che fosse saldo sul sedile della barca. Il sole era già alto. Riccardo, che ho conosciuto di recente, dietro di me mi ha distolto, toccandomi prima un braccio. Senza parlare gli ho fatto un cenno per chiedergli di non distrarmi. Lui è rimasto in silenzio poi, con un gesto lieve, mi ha spostato i capelli dalla faccia.
Mi sono svegliata per quel tocco leggero, provocato dal gatto che passeggiava in lungo e in largo sul mio letto. Ondeggiava disinvolto la sua coda pelosa sulla mia faccia.
“Ohi! Da dove sei entrato?” Un po’ mi sono spaventata.
Non è il mio gatto. Di tanto in tanto viene a farmi visita. Era un po’ che non si vedeva. C’era già luce, ma era presto, le cinque. A quel punto mi sono alzata e lui dietro. In un balzo è sceso dal letto e mi ha seguito fino in cucina con una richiesta implicita, in quel “miao” ostinato dei gatti, purché si mangi.
Si strusciava come se ci fosse un legame da anni mentre sminuzzavo un po’ di pesce avanzato. Mi sa che devo comprare delle crocchette.
Ho dialogato con un gatto randagio come un’anziana in pensione per distrarmi, sia dal sogno nebuloso, sia dal silenzio delle prime ore del mattino a cui non sono abituata. Ho fatto il giro della casa per vedere da dove era entrato il gatto, probabilmente da una delle finestre a cui sono state messe sbarre di ferro. Per precauzione, nonostante non ci siano malintenzionati.
Di notte le lascio aperte perché entra l’odore del gelsomino e un misto di profumi provenienti dalle piante aromatiche che crescono spontanee qui intorno.
Mi sono infilata un maglione, l’aria era ancora fresca.
Porto spesso maglie di cotone con le maniche lunghe anche di giorno, suscitando orrore da parte degli isolani che per la maggior parte portano pantaloncini e canottiere, quando va bene. I ragazzi li vedo a torso nudo, abbronzatissimi, mostrare i bicipiti rigati dal sale. I turisti, che adesso si fanno più numerosi, sembrano gamberi dalle carni bianche e rosse impropriamente e troppo a lungo esposte a un sole che è bene tenere a bada.
Ho preso un caffè, ho fatto una doccia e ho deciso di scendere a piedi fino alla spiaggia e fare il bagno. Mi sono incamminata giù per la discesa. Il gatto dietro, per cento metri poi si è stufato, forse è tornato a dormire sul mio letto. Io ho proseguito da sola, nel fresco del mattino.
Ho avuto una sensazione di tale pace che ho promesso a me stessa di uscire ancora così presto, consapevole che non lo farò o almeno non con la determinazione che mi sembra di avere in certi momenti. Tipo domani mi metto a dieta, porto fuori il cane tutti i giorni, vado a camminare tre volte alla settimana.
Ho smesso di pensare e mi sono lasciata trasportare da quell’atmosfera avvolgente, nel rumore ovattato che fa il vento nei paesaggi deserti di gente, lontani dai fragori delle città e del loro traffico. Distanti dal mondo eppure così vicini da assaporarne gli elementi che ne tracciano la storia.
Ogni volta che mi allontano dal brulicare della gente e mi ritiro in luoghi silenziosi, vivo la sensazione doppia della vita associata alla morte. Qualcosa mi solletica le orecchie, mi soffia dentro la vita, rendendo il mio udito più fine, lo allunga e percepisco altri suoni. È come varcare l’altro mondo.
Mentre camminavo, sentivo di non voler arrivare mai, sorpresa dal calore accogliente di quel luogo, della strada deserta, dai profumi ancora intensi, residui dell’umidità della notte. Era come se tutto quel silenzio mi conducesse lieve verso una porta senza ritorno ed ho avuto paura di perdermi, di volare via, di disperdermi nell’aria.
Ho respirato, riempiendo i polmoni dell’aria magica di questa mattina. Ho chiuso gli occhi provando un senso di gratitudine, miscelato allo stupore per la mia vita che sta cambiando. Eppure era ciò che volevo. All’inizio di questo soggiorno mi sono ubriacata degli spazi selvaggi, aperti, esposti e plasmati dai processi naturali che determinano le linee. Non facevo altro che dire “che meraviglia”. Poi allo stupore sono seguite emozioni nuove, come se fra me e il mondo attorno non ci fossero più rumori e gente a falsare verità latenti. Solo silenzio.
Sono rimasta per lo più in casa, forse per il timore di nuovi incontri, di altre emozioni, sorridendo, ma provando fastidio ogni volta che Mario mi proponeva di “restare in vita” come dice lui.
Oggi per colpa del gatto o per via del sogno sono uscita e il cuore, l’ho sentito, ha iniziato a battere più forte mentre scendevo, verso la spiaggia. Credevo di essere pronta all’assenza dei rumori, convinta di desiderare l’isolamento. Invece sono inerme, smarrita di fronte a tutto ciò che avrei voluto grande e aperto, proprio come in questa bella terra esposta agli elementi.
Mi sono concessa un po’ di tempo. Il tempo di attraversare il paradiso.
Il tragitto in discesa è breve, è facile e in un quarto d’ora sono arrivata fino alla spiaggia, girando intorno alle poche costruzioni basse per evitare di incontrare qualcuno. Volevo continuare e restare ancora un po’ in quella specie di culla sorda di voci e di gente. Ho tolto la maglia e i pantaloni leggeri, un look che più o meno ripropongo per ogni occasione. Del resto le occasioni che mi concedo sono quelle che sono.
“O hai poca fantasia o non ti lavi i vestiti” Mi ha detto Mario.
“Perché?” Gli ho chiesto, intuendo la sua risposta.
“Perché sei sempre vestita allo stesso modo, con gli stessi colori, oltretutto anche un po’ spenti …”.
“A me piace così”
“Ti regalerò un vestito rosso!”
“Sì che bella idea, lo metterò senz’altro!”
Ho appoggiato a terra le mie cose e sono rimasta in costume. Intero. Blu. Mentre me lo aggiustavo, sentendolo tirare, per niente a mio agio ho sorriso, pensando sempre a lui, Mario, mio fratello piccolo che oggi ha trent’anni.
“Sei l’unica in tutto il mondo a quarant’anni a portare un costume intero!”
“Lo portavo anche a venti”
“Ah c’è da vantarsi!”
“Regalami un perizoma da spiaggia già che ci sei, quando compri il vestito rosso!”
Lui, lo so, non può capire. A differenza di me è cresciuto in assoluta libertà.
Diciamo che il mio costume blu è tutelante.
Mi sono avvicinata alla riva così trasparente da mostrare tutta la bellezza del suo fondale. È ingannevole però e devo fare attenzione perché, anche se sembra il contrario, l’acqua è molto profonda. I sassi e le piccole rocce sul fondo sembra di poterli toccare, invece appena fai un passo ci sono almeno due metri d’acqua.
Abituata ai fondali bassi e sabbiosi dell’Adriatico in cui puoi camminare per decine di metri con l’acqua alle caviglie, senza riuscire a vederti i piedi, la prima volta che mi sono immersa qui in questo mare pulito, sono sprofondata fino al sedere e un passo dopo ero a mollo fino alle ascelle. L’acqua, gelida come appena tolta dal frigorifero, mi ha mozzato il fiato, nonostante senta spesso dire da chi abita qui che è “com’u brodo”.
D’istinto ho alzato le braccia. Aiuto. Ma non ho gridato. Subito mi è mancata l’aria, poi mi sono ricordata che almeno a galla ci sostare. Tra l’altro il cosiddetto brodo in genere è una tavola piatta, soprattutto al mattino. È bastata una spinta, un piccolo colpo di reni e decidere di togliere i piedi dal fondo. In acqua basta nuotare.
Coraggio. Ho tirato un sospiro come se dovessi tuffarmi da un trampolino di dieci metri. Il mare, per quanto attraente, m’impaurisce. Qui è addirittura irresistibile e quindi lo temo ancora di più. Per la profondità dell’acqua non ho fatto in tempo ad abituarmi allo sbalzo termico, in un secondo ero del tutto immersa. In fretta e furia ho iniziato a muovermi per resistere al freddo.
Con la testa fuori come un’anatra, neanche troppo abile, ho tentato qualche bracciata, nuotando parallelamente alla riva, figuriamoci se mi spingo al largo. Poi ho messo la testa sott’acqua e lì ho provato il secondo stordimento di questa giornata, iniziata con un sogno e con un gatto.
L’acqua fredda e salata mi ha sommerso la testa circondandomi, spingendomi a guardare la vita nel fondale e ad osservare i movimenti lenti dei molluschi che respirano a rallentatore. Oscillano al soffio delle correnti e della vita, come i rami degli alberi sulla terra. Sotto di me, a sfiorare il mio costume blu, il passaggio rapido di pesci argentati, accorpati in branchi, diretti verso chissà quale meta del mare. E silenzio, questa volta interrotto solo dal mio riprendere fiato sulla cresta dell’acqua, anche per accertarmi di non essere troppo distante dalla riva quasi deserta.
Ancora il richiamo muto di quel silenzio ovattato, irreale, che svela il confine tra una dimensione e l’altra, di nuovo tra la vita e la morte e di nuovo il desiderio e la paura di uscire dal limbo del mare o di sprofondare per sempre.
Mi ha distolto il freddo, perché sono rimasta lì con la faccia immersa, come un cadavere galleggiante sulla superficie. Ho realizzato di dover uscire prima di irrigidirmi del tutto. Una volta fuori, il sangue ha ripreso a scorrere, aiutato dal sole che ormai era pronto a inondare di luce e di calore la terra e gli esseri umani preparati a muoversi dentro l’isola.
Sarò rimasta una mezz’ora stesa sul mio telo, mentre il sale si seccava sulla pelle, provocandomi un senso di leggero fastidio e il costume blu diventava sempre più caldo sotto i raggi del sole. Ho avuto come una vertigine, allora ho pensato agli avvertimenti di nostro padre di non stare troppo con la testa esposta al sole.
“Va a finire che mi viene un malore” Ho pensato tornando alla realtà, perdendo del tutto le tracce della poesia e della libertà provate nella fusione con l’universo. Comunque qui, dopo le undici non resiste nessuno, il sole è davvero troppo forte e il caldo non è più piacevole, almeno per me. Non ho incontrato un’anima né all’andata né al ritorno. Ho anche pensato di essere morta. Invece sono qui. Ma ho dimenticato di comprare le crocchette.

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