Ho aperto l’armadio a tre ante nella camera dei miei genitori. Un vecchio armadio degli anni 50 che sta in piedi per miracolo su otto gambette sottili. Si è sprigionato come sempre un odore di tabacco. Tutte le stecche di sigarette di contrabbando, accumulate negli anni, hanno lasciato un ricordo nel legno. Ci sono ancora degli oggetti: un orologio mai usato, un braccialetto destinato a chissà chi. E’ roba di Loris
Se lo incontravi, sembrava uno qualunque. Uno come gli altri. Niente di che.
Una persona comune. Eppure attorno a lui si creava un’aria strana, gli adulti diventavano sfuggenti, sollecitando il mio intuito. Quando si parlava di Loris, intravedevo sguardi complici, occhiate d’intesa che presupponevano chissà che cosa. M’incuriosiva quel fare misterioso di mezzi sorrisi e frasi incoerenti.
“Questa sera c’è anche Loris”
Qualche volta mio padre, che coltivava il culto del ristorante come conseguenza della fame subita in passato, lo invitava. “Se lo tirava dietro”, per dirla come mia madre, quando si riferiva ad alcuni altri amici ai quali la vita non aveva riservato le stesse nostre opportunità. Veniva invitato secondo la filosofia di mio padre che da un lato lo trattava con rispetto e dall’altro provava pena. Le occasioni per sedersi a tavola con qualcuno per Loris erano poche.
Mio padre, condizionato dal ricordo della miseria dell’infanzia, da adulto aveva optato per uno stile di vita tutto suo. Uno in più a tavola per lui non faceva differenza, mentre per quell’altro, l’uno in più che aveva poco o niente, la differenza la faceva.
A casa o al ristorante, se si mangiava in quattro, si poteva mangiare in cinque e cosi via, senza turbamenti e senza star a far troppo i conti con quello che c’era in tasca.
Dunque aggiungeva coperti. Era un uomo generoso perché pagava lui, s’intende, soprattutto per quelli come Loris.
Le cene al ristorante, per lo più domenicali, si svolgevano in modo canonico: genitori, figli, amici di famiglia appunto, tavolate come le altre. In apparenza normali, ma i profili e gli stili di vita non lo erano.
Il nostro è stato sempre un mondo a parte, ai confini della legalità che curiosamente ci ha reso speciali, benvoluti e anche un po’ invidiati. Per quanto anomali.
Per me, che appartenevo a quel mondo, non c’è mai stato niente di speciale. Tutto era semplice, anche se intuivo e non capivo il senso dei segreti che gli adulti tenevano per loro. Allora, ai tempi di Loris, io ero solo una bambina, ignara di ciò che accadeva ai margini e fuori dalla nostra società. Non sarebbe servito a niente dirmi che quell’uomo entrava e usciva di galera.
Ricordo che mi sedevo a tavola, concentrandomi più sui miei piatti preferiti che sui commensali, ricevendo quelle attenzioni che di solito gli adulti riservano ai bambini, Compresi i camerieri.
Loris accettava volentieri gli inviti di mio padre e cenava con noi. Loris non era il suo nome, lo chiamavano così. Ricordo soprannomi improbabili, mezze forme dialettali che non assomigliavano a niente “Puntò, Gagiò, Ristò”.
Lui, diciamo così, aveva un secondo nome. Del primo non sapevo, né se avesse mai avuto una famiglia, dei figli. Avresti potuto dargli del single. Quando si aggregava, lo faceva da solo. Ci raggiungeva sempre in compagnia di se stesso, un po’ di corsa come se si fosse attardato a far qualche lavoro importante.
Comunque era Loris e basta. Un nome a cui associavo una misteriosa ironia.
C’era un segreto lo capivo, però niente di morboso o inquietante. Avvertivo quel non detto in mia presenza, più per preservare me che lui, qualcosa che gli adulti in privato invece si dicevano senza l’ombra di un giudizio.

Aveva occhi verdi, furbi, da gatto, che guardavano rapidi intorno. Occhi che ridevano, scivolando sui presenti, correndo sui muri quando mi parlava nell’incertezza di dirmi parole sbagliate. Un momento ti guardava e un momento dopo era scappato via, incapace a fermarsi per l’abitudine di uscire in fretta da un posto o da una condizione.
D’istinto sapevo che era un innocente, un buono d’animo che ignorava il male e lo oscurava con un candore quasi infantile, negandolo, ridendoci su. Aveva l’aria di chi non sa nuocere, ma potrebbe farlo per necessità.
Era un povero cristo.
“Sono stato in collegio …” Fra l’impacciato e il persuasivo si rivolgeva a me con questa frase cretina che sapevo essere una balla. Ogni volta raccontando la storia impossibile del suo fantomatico collegio da cui andava e veniva. Erano frottole a fin di bene che, dette ad alta voce, erano anche comiche, facevano ridere e ricevevano sorrisi accomodanti come accade per quegli studenti un po’ somari. Si ride per non piangere, per non dar peso alla certezza di una redenzione impossibile.
“Sono stato in collegio”
“Eh sì, in collegio!” Gli rispondevo, ritenendo inverosimile che un uomo di quarant’anni andasse ancora in collegio. Oltretutto già allora il collegio era qualcosa di obsoleto, in via di estinzione.
“Ma io ci vado ancora … anche se sono grande. Sono ripetente” Cantilenava, ruotando la testa sui commensali per ottenere la solita allegra approvazione.
Mi prendeva in giro ed io non mi fidavo di quelle affermazioni troppo stridenti anche per la mia età. All’epoca avrò avuto una decina d’anni e anche se eravamo meno svegli di quanto lo sono oggi i bambini di dieci anni, lui si rivolgeva a me come se ne avessi tre o quattro. Un’età in cui puoi raccontare anche che sei un principe, che tieni in casa un leone e che al lavoro ci vai volando. Non credevo affatto a quel collegio di buffoni ripetenti né a tutti quegli adulti che stavano al gioco e gli davano man forte mentre assistevano ai nostri dialoghi.
“Non ho avuto voglia di studiare, sono un po’ stupido” Lo diceva allargando le braccia rassegnato, delineando in fondo un profilo più vicino alla realtà di quanto volesse far credere .
Si burlava beffardo, nascondendo la paura del mio giudizio. Un bugiardo che mentiva stupidamente, preferendo passare per scemo piuttosto che ammettere i suoi reati. Anche con mio padre lo avevo sentito dire la medesima frase, che era uscito da poco dal collegio. Ma fra loro c’era intesa e quella era una specie di frase in codice, per non dire ad alta voce, esponendosi ai giudizi della gente, che era stato di nuovo in carcere. O ne era uscito.
Mio padre, accomodante e flessibile nella sua concezione della vita, lo capiva, lo lasciava vivere, se lo portava appresso. Credo però che gradisse davvero la sua compagnia e in più se ne prendeva cura, lo metteva a tavola, se ne occupava. A volte, per non farlo sentire da meno, accettava qualche favore. Fingeva richieste inutili, un’autoradio, un registratore, cose così, che Loris era orgoglioso di procurare attraverso i suoi canali per ricambiare l’amicizia. Mio padre a volte tornava a casa con i “regali” di Loris, spesso troppi o troppo sproporzionati. Ho un ricordo di sveglie e orologi inutilizzati in fondo a un cassetto, di radioline impolverate, di stecche di sigarette stipate negli armadi. Tutto merito di Loris e della sua riconoscenza verso mio padre, verso di noi.
Rubava, truffava, s’imbrancava con i più balordi, finendo suo malgrado per fregare il prossimo. Lo faceva per sbarcare il lunario. Poi veniva puntualmente arrestato, rientrava a casa, finiva dentro come uno che torna in famiglia. Un affezionato, uno studente fuori corso, un recidivo senza più attenuanti a cui non dispiaceva in fondo l’idea di vivere in prigione. Era meglio che fuori.
Allora non avevo idea di come certi adulti finissero dentro, in carcere, e altri no. Non sapevo se uno era un delinquente o uno per bene. Finché qualcuno non ti fa del male, non sai cos’è il bene e il male, per di più in una famiglia come la mia, in cui i confini fra queste due condizioni si perdevano ogni giorno senza mai tracciarsi.
La verità non è la stessa per ognuno di noi. Nei ricordi di quei cenacoli non c’era nessun male e lui, Loris, era soltanto un burlone che mi faceva ridere. Spente le luci dei ristoranti che, senza mio padre non avrebbe visto, tornava nelle ombre delle abitudini, rassegnandosi a girare a vuoto, subendo i giudizi, vivendo ai margini. Era un fuori legge anomalo, senza criterio con un desiderio inconsapevole di ritornare in carcere.
Era un malvivente mediocre che non se lo filava nessuno.
È morto nel sonno, in una stanza d’albergo. Durante una pausa. Il collegio aveva chiuso. È finito sul giornale un’altra volta. L’ultima.
Non l’ho riconosciuto. Non sapevo a chi appartenesse quel nome sulla carta stampata. Un trafiletto di cronaca locale che non gli ha reso giustizia. Parlava di un tale, morto fra quattro mura anonime, senza una lira. Un altro uomo.
Ho chiuso il giornale e ho pensato a tutti quegli oggetti inutilizzati che mio padre portava a casa. Ho pensato a Loris.
L’ho immaginato disteso, addormentato. La prima luce dell’alba gli rischiarava il volto, rivelando il sorriso senza pensieri dei sogni che scorrono negli occhi. L’ho immaginato senza colpa e senza paura come quelle anime che dicono elette, che passano veloci sulla terra allo scopo di renderci più puri e più liberi.

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