Ieri notte ho sognato la stanza della nonna, il copriletto di seta rossa con i motivi floreali in rilievo, le foto di mio padre sul cassettone e una lettera con la data della mia nascita che annunciava il lieto evento. Gli oggetti, scomposti, rivelavano il suo passaggio e quelli della nostra vita. Nella stanza lei non c’era più, se mai c’era stata. Ho guardato un’ultima volta il suo avvolgente, fascinoso copriletto, le cui pieghe rivelavano il riposo di qualcuno da poco risvegliato e uscito chissà dove, dimentico dei sogni scivolati sulla seta. Ho mantenuto a lungo lo sguardo sulla luce impassibile del giorno, prima di iniziare a riporre con ordine un capitolo della mia vita.
Mia nonna Concetta, raccontava di aver visto la Madonna.
Si chiamava Concetta, come molte altre in Sicilia e come mia sorella che però la Madonna non l’ha mai vista. Da bambina mi vergognavo di quel nome stridente, dissonante dai nomi di nonna che conoscevo. Mia sorella che pure lei si chiama Concetta, era un’altra cosa, era sempre stato così.
La nonna la vedevo solo in Agosto, nelle vacanze comuni a tutti i figli di siciliani emigrati, zeppe di sapori che ti bruciano la gola e di odori che ti ubriacano, che ti sembra di svenire. Aromi pungenti che a casa non ritrovi più, ma che continuano a incidere il cuore attraverso i ricordi.
Poiché la nonna materna era morta prima che io nascessi, potevo contare solo su quella. Potevo dire di avere anch’io una nonna, magari lontana, ma pur sempre una garanzia che mi omologava nella categoria dei nipoti. Se dovevo presentarla, invece, la cosa si faceva più complicata.
“Cheee? Ma che nome è?” Chiedevano i compagni, rivelando fin da allora un futuro razzista. Con una nota di sottile cattiveria infierivano sul mio sentimento d’inadeguatezza. Più che una garanzia quel nome era un marchio.
A quei tempi Concetta dalle nostre parti era un nome da ridere, oggi invece Brad, Brian, Sharon, dalle nostre parti sono un dato di realtà, una certezza, il risultato di un’apertura mentale da parte di un popolo che sa accogliere le diversità.
Non c’è niente da ridere.
Mentre aglio, basilico, prezzemolo si espandono nell’olio sfrigolando, finisco dall’altra parte del mondo ad aspettare la cena in una sera d’estate dove la luna ha un’altra faccia, richiama i cani che abbaiano sulla spiaggia, lasciando a me e ai cugini impauriti il sospetto che un “lupinario” si agiti poco più in là. I lupi mannari.
Dalla terra dei mostri e di tutti i santi avrei mai potuto chiamare mia figlia Sharon?
Se avessi saputo della visione, allora sarebbe stato diverso, forse mi sarei rivalutata, magari avrei avuto una chance, oppure chissà, la cosa mi sarebbe pesata ancora di più. Da bambina non sapevo che mia nonna aveva visto la vergine Maria. La mamma aveva un fare misterioso quando stavamo in Sicilia ed io avevo sempre l’impressione che lei e le zie mi nascondessero qualcosa. Occultavano ogni genere di evento, fosse questo comune o straordinario, non si sa se per non spaventarmi o per risparmiarsi la seccatura di rispondere a domande fuori luogo.
Mi hanno tenuto fuori per tanto tempo ed è stato meglio così. Ci mancava anche la visione a rendermi ancor più disuguale e fuori posto.
Seconda di sei fratelli, il primo era Peppino, un maschio, Concetta era venuta al mondo in una famiglia con pochi mezzi, alla fine dell’ottocento, in tempo per assistere al declino dei Borboni e pronta per il viaggio verso l’Unità d’Italia, in una Sicilia povera che dell’Italia non ha mai fatto parte.
In sosta tra un secolo e un altro, sospesa tra progresso e magia, la nonna forse non fu mai del tutto una bambina; suo malgrado dovette prima di tutto guardare i fratelli, la casa, l’asino e quelle tre galline secche che sua madre scambiava per gioielli per quanto ci teneva; imparare i lavori di casa e a undici anni andare a lavorare in una fabbrica, di limoni, raccontava lei; l’unica in quel posto da fame. Visse per metà della vita in una condizione di povertà estrema; allora in Sicilia erano molte di più le famiglie povere di quelle ricche, e magari adesso.
Da bambina però anche a lei piaceva giocare a nascondersi e a correre. Frullava intorno come i gatti che frullano per gioco e se non c’era niente per cui divertirsi lei lo inventava, come tutti i bimbi che lo sanno fare per natura.
Ulivi, aranci e piante basse fanno da sfondo ai giochi di Concetta e dei fratelli; gelsomini e oleandri sono la cornice dei loro passatempi, sempre più brevi e rari.
La nonna, mi ricordo che profumava di olive e di sale. Pensarla bambina era una fantasia improbabile, seduta sulla sedia bassa, impagliata con l’abito scuro e la treccia grigia arrotolata in una crocchia sulla nuca: il tuppo. Impossibile immaginare la bambina di dieci anni che era stata. Incredibile figurarmela mentre va a lavorare, per me che in quinta elementare non sapevo nemmeno mettere la chiave per entrare in casa.
Non solo aveva visto la Madonna, ma aveva lavorato senza sosta in un periodo della sua vita che coincideva più o meno alla mia età di allora, dunque non so dire quale delle due fosse la cosa più difficile da credere.
Andò presto in fabbrica, i bambini erano i più sfruttati, pagati meno della metà di un adulto, ma intanto era già qualcosa per quella famiglia numerosa, da mandare avanti, da far campare. Concetta fu costretta a farsene carico: un occhio al lavoro, sempre più noioso e pesante, un occhio sui sogni per far passare presto il tempo e tornare a giocare, magari per poco, a nascondersi dietro le piante basse, tra i tronchi nodosi.
La Madonna era venuta da lei di primo mattino, diceva.
La nonna si è sempre espressa in un dialetto stretto, di vocali prese a morsi, lasciate lì dai greci o dagli arabi, diceva parole che a volte anche i suoi figli non sapevano tradurre.
Quando seppi, per ultima, del prodigio, avevo diciassette anni. Vivevo un momento in cui la priorità era prendere a calci il mondo e avercela con tutti; sinceramente mi parve una stronzata da donne superstiziose.
Comunque fosse volevo bene alla nonna e alle zie, propendendo di nascosto per quel mondo d’amore che Agosto mi riservava. Gli abbracci, la pasta di mandorle colorata, i gelsi carichi di frutti violacei, i pesci argentati e le grandi infinite tenerezze che dovevano bastarci per tutto l’anno. Ne facevo grandi scorte che poi, il tempo di passare lo stretto, finivano subito come i sapori delle conserve accatastate sopra il tetto dell’auto che qua non erano più le stesse.
Volevo bene alla nonna perciò, sebbene con cautela, volli crederle. Sotto la scorza dura dell’adolescenza, un moto profondo aveva portato alla luce curiosità e devozione infantile per quel mondo strano, di fatti bizzarri, che la gente normale ci ride per allontanare la paura di esserne stregato.
“La madonna? Ma dai!” Ero rimasta sbalordita, senza riuscire ad aggiungere nient’altro. Lei aveva annuito, lo sguardo severo, tra il serio e il compiaciuto, inibendo sul nascere ogni commento dissacratore che potesse profanare lo spirito di quell’esperienza straordinaria. La mamma mi aveva dato un’occhiata di servile complicità che sembrava dire “Come? Non sapevi? E’ pur normale, può succedere!” Facendo sentire me inadatta, incuneando le sopracciglia come ad affermare: “Sei sempre fuori dal mondo”.
Dunque stando ai fatti, la nonna, in tempi lontani, aveva avuto per così dire un’esperienza ultraterrena e la famiglia tutta ne era al corrente, compresi i miei cugini che ne avevano preso atto senza discutere. Io ero rimasta estranea alla cosa per colpa del mio carattere solitario. C’era da incazzarsi, ma non mi venne, la curiosità mi attrasse come un magnete, più della voglia di crescere che fino a quel momento aveva avuto la precedenza.
Concetta è stanca, ha solo dodici anni ma con sua sorella Peppina di dieci si reca al lavoro appresso alla mamma. Ha sonno, non vuole iniziare un’altra giornata che come quella di ieri le farà venire il mal di gambe e il mal di schiena e quel bruciore agli occhi che poi le da fastidio il sole. Concetta non si regge in piedi per la fatica.
Nel suo dialetto stretto dice alla mamma che non ce la fa più e che vuole riposare solo un momento, prima di riprendere il lavoro. Chissà com’è che la mamma dice, va bene, ma solo un pochino…
Sua sorella Peppina va con lei in una stanza vicino alle macchine, forse un ripostiglio adiacente al posto in cui le donne lavorano, chissà da quanto.
Tutte e due si siedono in scomode sedie di legno, accanto ad un tavolo spoglio, entrambe appoggiano la testa sul ripiano, una di fronte all’altra con i sogni che già entrano negli occhi. Di lì a un momento sono addormentate. La lunga treccia, che Concetta non ha mai tagliato e da qualche tempo ha imparato a farsi da sola, scivola dolcemente lungo il fianco. Il braccio, sotto la testa, s’intorpidisce, ma lei non sente più nulla. Adesso è fra gli ulivi quieti di un sogno muto. In silenzio incomincia a salire su, sempre più su, lungo il fianco della montagna. Dall’alto guarda il mare, sotto di lei, il vento si è alzato, le accarezza il vestito; guarda ancora di sotto e non vede nulla di ciò che c’era prima, solo mare e vento.
Il sogno è fatto di sale e di roccia, di volteggi ventosi, di fredde correnti che tracciano percorsi circolari, sempre più veloci fino a creare un vortice dentro al quale sembrano danzare gli spiriti dell’aria. La corrente adesso è un torrente luminoso, il braccio indolenzito sveglia Concetta che apre gli occhi per tornare alla realtà. Ma la luce del sogno non si attenua, si fa più intensa e si avvicina. La luce del giorno non è perché fuori è solo l’aurora. Strizza le palpebre con le dita, focalizza lo sguardo davanti a sé e il cuore all’improvviso smette di batterle nel petto per ricominciare all’impazzata, togliendole il fiato dallo “scanto”.
Una donna vestita di bianco dai capelli eccezionalmente lunghi, fino ai piedi, avanza da un punto imprecisato della stanza. Viene verso di lei che ormai è muta di paura. Il volto pallido emana qualcosa di sacro, una luce suprema le illumina i contorni. La donna dallo sguardo intenso, dalla bocca distesa come linea di pace, confine fra terra e cielo, la donna fatta di luce bianca tocca la fronte di Concetta, semplicemente, per svanire in tutta lentezza da dove è venuta, lasciandola stordita, in preda ad un turbamento che non saprà mai dire. Peppina, sua sorella, continua il suo sogno di giochi sospesi a metà, dorme, non si è accorta di nulla…

Concetta in seguito raccontò ciò che aveva visto alle donne che le credettero. Senza dubbio, la Madonna le era apparsa.
Di lì a pochi giorni, lei, la mamma, sua sorella e le donne della fabbrica, distratte quella notte dall’evento soprannaturale, videro la terra aprirsi e mangiare le case e il mare venire avanti e divorare la terra, come se gli dei avessero perso il senno e gli uomini la fede.
Insieme a quelle donne Concetta si è salvata, il mare non è riuscito a portarsela via, non le ha preso nemmeno un capello della bella treccia corvina. Poteva succedere qualcosa a lei che era stata scelta per sopravvivere?
Cosa le abbia fatto credere che si trattasse proprio della Madonna non saprei. Nell’apparizione non ci furono parole, né presagi, né avvertimenti chiari, solo uno sguardo e quel tocco intenso, più un gesto evocativo, una mudra tracciata sulla fronte, un’assoluzione dai peccati del mondo, degli dei e degli uomini. Una benedizione per quella bimba fra tante.
La donna dai “capiddri longhi” che era apparsa solo per pochi istanti, lei la ricordò per tutta la vita, senza nutrire un solo dubbio sulla sua identità.
La “Signora”, presentandosi quel mattino del 1908 a illuminare il sogno di Concetta, aveva annunciato la grande scossa, per questo non disse niente, per non “scantarla”.
Aveva scelto una bimba speciale per concederle il privilegio di restare sospesa un momento fra la terra e il paradiso.
Concetta magica, con un occhio al progresso è vissuta per quasi un secolo. Tenace fatalista, discreta, non si vantò per niente del suo miracolo, che non fece il giro del mondo, ma fece a malapena quello della nostra famiglia. Per lei semplicemente era accaduto, così come succedono le cose, siano queste abituali o insolite, siano esse dolorose o portatrici di luce.
Il ricordo di Concetta toglie l’ombra del pregiudizio, rischiara l’anima e mi scioglie il cuore quando riascolto con la memoria quel linguaggio antico, dalle note incantate di cui sono privilegiata erede.

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