Sapeva di rossetto e fumo di sigarette.
Anche i profumi e le creme erano pungenti e inebrianti, ma non era per quello che s’indovinava la sua presenza. Erano piuttosto le boccate di fumo addolcite dalla pasta di rossetto a rimanere nell’aria e a far dire alla nipote “c’è la zia”.
La signora Marcella lasciava segni di sé dovunque andasse. Restava impresso soprattutto Il suo fare diretto e l’assoluto disinteresse per il giudizio altrui. Le frasi celebri, i fatti narrati con la voce arrochita dal fumo, diventavano bagaglio culturale, patrimonio di famiglia di chi l’aveva conosciuta.
Marcella concedeva la propria amicizia d’istinto, aprendo la sua casa con genuina ospitalità a chiunque le andasse a genio.
Episodi fortuiti, conoscenze casuali, suscitavano in lei curiosità e altruismo e, semplici incontri, avvenuti magari sotto l’ombrellone o dal droghiere, si trasformavano in legami destinati a resistere per tutta la vita.
Sebbene Marcella non fosse un tipo paziente e a lungo andare si stufasse della presenza degli amici o dei parenti che ospitava a casa sua come in una pensione, aveva un modo tutto suo di farsi amare. Così chi partiva, vuoi per affetto, vuoi per la sua generosità, ritornava sempre.
Trascorreva le vacanze estive in riviera, in una casa in affitto a due passi dal mare. Il marito, il secondo marito, le riservava molte attenzioni per via di quei problemi di salute che l’avevano costretta ad una lunga degenza in ospedale. Un grosso fibroma, scoperto in gravidanza avanzata, le aveva fatto perdere il bambino e l’utero, causando danni anche agli organi limitrofi.
“Nel ‘63 ho avuto uno sventramento!” Così sintetizzava il danno subito, eccedendo in descrizioni impressionanti fino a rasentare il ridicolo. Ammesso che ci fosse da ridere.
Marcella diventava grottesca, senza averne la più pallida idea. Per quella particolare mancanza di freni, raccontava con dovizia di particolari, sempre diversi, fatti di chirurgia, asportazioni e degenze, provocando espressioni di sconcerto e solidarietà: “Come ha sofferto la signora Marcella!”
Il dolore lo aveva sicuramente provato benché sovente cedesse alla tentazione di esagerare, varcando i confini dell’immaginario, lasciando forti dubbi sull’attendibilità degli argomenti. In sostanza, dai racconti che faceva, come un vulcano in eruzione, non avevi mai la certezza di una verità comprovata.
All’occorrenza chiamava in causa come testimoni la sorella: “Ti ricordi vero Flavia?” – o il marito, il secondo marito – “C’eri anche tu quella volta Gregorio “. Li chiamava a far da garanti a proposito di eventi sempre fuori dal comune. Sorella e marito, meno creativi e costantemente smarriti nei suoi riferimenti, esprimevano dei vaghi: “Mm … sì, sì mi sembra ….”. Ponendo lo sguardo sulle punte delle rispettive scarpe. In qualche rara circostanza dissentivano: “Ma va là Marcella, cosa dici!”
In quei casi lei si stizziva, accusandoli di non ricordare mai niente.
Marcella viveva in un palcoscenico, senza scendere da lì nemmeno di notte. Come una diva hollywoodiana, dormiva con i tappi di cera nelle orecchie, la mascherina sugli occhi e il tranquillante per dormire sogni sereni, altrimenti disturbati dai problemi della vita. Non ultimo lo sventramento. Da sottolineare come la scelta delle parole venisse fatta con ricercata brutalità, tale da restare a lungo impressa nella mente dei suoi interlocutori .


Dolores, la nipote, ricordava le lunghe visite in ospedale alla zia. Da quel posto inadatto le regalava giocattoli costosi: un fustino pieno di piccoli mattoni, tegole e finestrelle per costruire casette, una scatola di piastrelle con incise letterine rosse per comporre le parole, chiodini colorati da inserire in una tavoletta e ideare figure.
Uno sballo quei pomeriggi all’ospedale.
Ricordava anche una vicina di letto della zia, una giovane suora che le raccontava le storie di Gesù e degli apostoli e che le aveva regalato una madonnina fosforescente che di notte s’illuminava.
La zia, provocando il gelo fra gli adulti, aveva detto:
“Com’era carina poverina, è morta male … di tumore”. La piccola Dolores non sapeva però della morte né del tumore. La bruttura della realtà per lei era stata attutita dal tono fatalista della zia che, con macabra leggerezza e sorridendo, in fondo aveva solo spedito la suorina all’altro mondo. Dovunque esso si trovasse. Marcella dal suo letto d’ospedale, dava disposizioni al marito sui giocattoli da comprare. Lui provvedeva e lei, entusiasta come una bambina, li collaudava per Dolores la quale non pensava all’ospedale come a un luogo di sofferenza, ma come a un posto da frequentare spesso.
Per lei la zia Marcella rappresentava da sempre una certezza, un appoggio sicuro, un’alternativa alla madre. La mamma, più giovane della zia di sette anni, aveva un umore instabile e non le riservava le medesime attenzioni. La mamma e la zia erano figlie dello stesso padre stravagante e bizzarro del quale, si diceva, avesse contribuito a diffondere una vena di pazzia in famiglia.
La zia e tutto il suo contorno erano un’alternativa di vita, una via d’uscita da un quotidiano sovraccarico di restrizioni che la madre di Dolores le inculcava. Flavia aveva sposato un uomo buono d’animo, ma completamente incapace di badare a se stesso e alla famiglia, perso anche lui in un emisfero di anomalie, prima fra tutte il gioco d’azzardo. La mamma si lamentava di continuo.
La zia Marcella, una volta risolto il problema dello sventramento, era tornata per così dire alla normalità. Negli intervalli tra una visita e l’altra, Dolores aspettava gli zii: Marcella e Gregorio. Soprattutto Marcella che dirigeva un’orchestra di parenti e amici, trasformando la sua piccola esistenza in una festa piena di fantasia. Si sentiva molto vicina e somigliante alla zia e questo per la madre di Dolores non era un bene. Avvertiva nei discorsi la preoccupazione che troppa somiglianza rivelasse la presenza delle medesime stranezze di famiglia. Nonostante la sentisse ridere a volte, riconoscendo in lei il carattere di Marcella: “È come sua zia!”
Flavia, sua madre, non sempre era ben disposta nei confronti della sorella. La bambina però, che avesse o meno ereditato il carattere della zia, non ne temeva gli effetti. E ogni visita era una festa. Zia e nipote si chiudevano in camera. Guardavano i disegni o i quaderni di scuola, condividendo ogni piccolo successo.
Marcella aveva raccontato a Dolores di aver assistito alla sua nascita, dandole una versione inedita e personale dell’evento. Inverosimile ma di effetto.
“Ero lì in quella stanza e all’improvviso ho sentito un rumore”, – recitava Marcella, guardando di qua e di là. – “Dico, ma da dove viene?” – si stringeva nelle spalle piena di suggestione.
“Vado verso la finestra e . . oh dio ma cos’è?” Portava la mano al petto.
“Bimbombom !, toc toc!“ Gesticolava come per bussare.“ Sento un rumore, un farfugliare di ali che sbattevano e colpi di becco sulla finestra chiusa. Lo sai cos’era?“ Dolores, del tutto immersa nella favola, scuoteva la testa per sentire ancora una volta il finale che conosceva.
“Una cicogna grande!” Continuava Marcella allargando le braccia. “Grande come la finestra, si era spazientita perché non aprivo, aveva nel becco un fagottino piccolino, ti portava in un panierino di paglia ….”.
Quando non fu più tempo di credere alla cicogna, consapevole delle cose della vita, Dolores conservò il ricordo della favola della zia, incerta se mantenere fede a quei dettagli straordinari che avevano reso il suo venire al mondo, un tenero film d’animazione o se accettare il grigiore di una condizione comune ed unirsi alla massa degli uguali.
Sedevano sul letto della nipotina per passare in rassegna giocattoli e novità di cui la bambina poteva andar fiera, certa dell’interesse e dell’entusiasmo della zia.
“Oh vediamo un po’! Ma come sei brava! Facciamolo vedere allo zio!”. E tutto diventava speciale in quell’atmosfera da sogno, tra le spirali di fumo fluttuanti attorno al bocchino di Marcella. Lo teneva tra i denti, per non macchiarlo di rossetto.
“Dov’è il mio bocchino? L’ho perso. Chi l’ha visto?”

Per questioni di salute o per un suo vezzo, fra i quaranta e i cinquanta anni, aveva adottato un ausilio per ridurre le quantità di nicotina che riusciva a respirare. Appena si presentava l’occasione, smontava il suo attrezzo e mostrava, a chi le stava di fronte, il catrame che avrebbe potuto ostruirle i polmoni. Una schifezza. “Guardi qua quanto catrame!”
“Oh Dio signora Marcella! Che brutta roba!” Dicevano le amiche che ospitava per una partita a carte in giardino. Lei annuiva, spacciandosi per esperta dei danni del fumo, senza tener conto del fatto che, al di là dei miracolosi effetti del bocchino, lei fumasse interi pacchetti di sigarette, e fosse patologicamente affetta da tabagismo. Senza far caso alle contraddizioni, le signore uscivano da casa sua convinte di aver appreso una lezione sui danni del fumo.
Bocchini, filtri e ricambi accumulati e disseminati ovunque negli anni, erano finiti in fondo ai cassetti che come li aprivi, sprigionavano odore di fumo e pasta di rossetto.

Sedeva sul letto, senza togliere il cappellino di pelliccia, aspirando il fumo e come una signora aspettava di essere chiamata per il pranzo, godendosi quella bambina che avrebbe voluto per sé. La preferiva, inutile negarlo, in tutto e per tutto alla figlia ormai adulta. L’ultima gravidanza era stata interrotta bruscamente per la presenza del fibroma. Un sogno spezzato di cui ricordava i frammenti: forme indistinte di gemelli mai nati, embrioni immaginati ai quali era miracolosamente sopravvissuta.
“Pensa che la signora Marcella è stata tra la vita e la morte!“. Si raccontava sotto l’ombrellone.
La morte l’aveva schivata davvero e la vita le aveva concesso un’unica figlia a testimonianza di un tempo che avrebbe voluto negare. I gemelli, che invece aveva desiderato, erano volati via, portando con loro la speranza di una nuova esistenza per lei e Gregorio. Il loro legame non si sarebbe mai dissolto, benché il rimpianto di non aver potuto generare figli propri, trapelasse da ogni piega delle loro anime.
Dolores era nata qualche anno prima del dissolversi del sogno. Rappresentava dunque per Marcella l’occasione di riconvertire quell’affetto destinato ai figli mai nati. Valeria non era più nei suoi progetti e non sembrava neppure figlia sua.
Valeria era stata una bimba bellissima, una bambola dagli occhi azzurri e dai capelli biondi, vivace e curiosa. Si coglieva dalle foto dell’infanzia, uno sguardo indagatore e impertinente, una personalità decisa che pareva voler uscire dai vestitini alla moda del tempo, voluti e creati apposta da Marcella. Madre e figlia, una con i capelli d’ebano, l’altra bionda, bellissime in quella bizzarra diversità, vestivano spesso lo stesso taglio di stoffa. Mano nella mano strappavano sorrisi a chiunque le incontrasse. Piene di vita, complici in un civettare continuo, consapevoli di quella ricercata coreografia ogni volta che uscivano in strada. Ma l’alleanza tra Marcella e Valeria era destinata ad interrompersi, prima che la bambina compisse cinque anni. Di quel breve periodo conservavano alcune foto nelle quali loro stesse, non riuscivano a riconoscersi, né a ricordare il tempo in cui, camminando mano per mano, trasmettevano, l’una all’altra, fiducia nella vita.


Del padre di Valeria, il primo marito, Marcella parlava poco e malvolentieri, soprattutto con Dolores che desiderava lasciare all’oscuro. Come se la nipote potesse essere contaminata da quella parte della vita che, lei per prima, avrebbe voluto cancellare. La bambina del resto non comprendeva il concatenarsi degli eventi né sapeva collocarli al posto giusto, poiché gli adulti lasciavano i discorsi a metà e rispondevano evasivamente alle sue domande.
Sapeva che un tale di nome Tiberio, un tipaccio cattivo, a quanto capiva dalle frasi trattenute a fatica dalla madre, aveva a che fare con la zia Marcella e sua cugina Valeria.
Flavia ripeteva a denti stretti: “Quell’ignorante, quel prepotente !”
E Dolores a chiedere:“Chi ignorante? Chi dici ?“
“Ma niente …”. Tutto rimaneva nebuloso, in aggiunta al fatto che invece Valeria sembrava non provare la stessa collettiva indignazione. Tutti i familiari, ad eccezione della cugina, davano l’impressione di detestare questo Tiberio. Perfino Pellegrino, il nonno di Dolores, per niente incline a esprimere pareri, solo a sentirlo nominare socchiudeva gli occhi e preso dall’ira, anche lui fra i denti, imprecava:
“Delinquente, fascista birichino !” Anche se faceva , birichino era un’ offesa. Dare del birichino a qualcuno per il nonno era molto molto offensivo. Il nonno avrebbe voluto fare secco Tiberio. Lui e quella vacca di sua madre!
“Babbo stai zitto! “ Lo rimproverava Flavia che non voleva trovarsi di fronte alle domande della bambina, alle quali non avrebbe saputo rispondere adeguatamente. Che bisogno c’era di mettere in mezzo la bambina con quei discorsi?
Però anche lei i discorsi li faceva e sempre in presenza di Dolores, accusandola poi di essere troppo curiosa. Una cosa comunque per Dolores era chiara: se Pellegrino, solitamente perso nei propri silenzi, si esprimeva con quella rabbia, c’era da chiedersi quale orrida storia si celasse dietro a quel Tiberio.
Si domandava con una certa inquietudine cosa mai le nascondessero di quell’essere all’apparenza comune. Una nota di disgusto tuttavia, anche solo istintivamente, la provava anche lei.
Di Tiberio che, di fatto, era lo zio vero poiché non c’era legge da consentire il divorzio, a Dolores era stata raccontata una storia parziale che per età non sarebbe stata in grado di mettere insieme. Non sapeva come Tiberio potesse essere imparentato con Valeria perché non veniva mai a casa sua, come invece lo zio Gregorio. Dolores era ancora nella condizione in cui non si domandava chi è figlio di chi. Lei sapeva chi erano il suo papà e la sua mamma, ma non era in grado di estendere il concetto, soprattutto quando avvertiva tutta quell’acredine. Era meglio non fare né farsi troppe domande. Conosceva una storia approssimativa che gli adulti preferivano non raccontare. Nei frammenti, stralci intrisi di rabbia e risentimento, lo zio Gregorio non compariva. Lui era docile, paziente e adorava la zia. Non era per niente birichino e non lo era sua madre, per altro morta e sepolta da tempo.
Quell’altro costituiva una sgradevole appendice familiare alla quale era preferibile non fare riferimento. Meglio attenersi al codice degli adulti, anche se implicava l’esclusione dei bambini da quella storia. Comunque quando si accennava alla questione, Dolores drizzava le orecchie fosse anche solo per sentirsi dire da sua madre:
“Certe cose non ti devono interessare!”

Dolores sapeva dello zio cattivo. Lo aveva incontrato qualche volta in piazza in compagnia di Valeria che, quando veniva in città, passava a salutare il padre. Lui era sempre seduto al “Bar Centrale”ed era più probabile trovarlo lì che a casa sua. A casa sua c’erano state una volta ma Tiberio dormiva e le aveva accolte Adele, la nonna di Valeria. La vacca appunto. Dolores aveva giurato che non avrebbe mai e poi mai rimesso piede in quel posto da incubo in cui le paure di essere ghermita da una strega si erano materializzate.
Adele era la strega. Altro che vacca!
Per la prima volta in vita sua la paura si era tradotta in esperienza reale. Valeria, col sorriso sulle labbra, aveva bussato alla porta di un appartamento a piano terra che aveva l’aria di un sottoscala, una specie di ripostiglio. Da lì era emersa una figura scarmigliata e senza denti, gracchiante: la regina Grimilde dopo la trasformazione. La strega di Biancaneve era viva e abitava vicino a casa di Dolores. Era arretrata, trattenendo il fiato, senza staccare gli occhi dalla figura orrenda che rideva e gracidava, invitandola a entrare. Si era rifugiata dietro alla mole di Valeria, sperando nel buon senso di quella cugina adulta che avrebbe dovuto avere l’ingegno di portarla al parco e non in quel fetido antro da cui, era certa, non sarebbe più uscita.
Aveva immaginato una grande pentola sul fuoco pronta per lei.
Adele era una vecchia trasandata che non faceva più caso alla forma, se mai ci avesse fatto caso nella sua vita. Vedova da un tempo remoto aveva vissuto per il figlio. Nutriva per lui un sentimento morboso, un amore malato che si prolungava sulla vita affettiva di Tiberio, per altro abituato non tanto a tornare, quanto piuttosto a rimanere tra le sicure braccia di mamma.
Adele era pronta ad azzannare qualunque figura femminile s’interponesse fra lei ed il suo Tiberio, nonché a mettere in atto qualsiasi strategia pur di averlo tutto per sé, anche a costo della morte fisica. Stretti da un legame patologico, i due avevano costituito nel tempo un’associazione a delinquere, una dinamica di relazione assolutamente distorta anche se non rara.
Adele era una megera che aveva contribuito a fare del figlio un violento.
Il giorno in cui Dolores provò la spiacevole sensazione di veder materializzate le proprie paure, dietro ad una porta in una stanza buia, aveva intravisto una sagoma stesa su un letto. Pazza di paura si era domandata quale altro mostro si sarebbe manifestato in quel tugurio, prima di finire dentro la pentola. Tra l’altro una pentola, effettivamente reale, gorgogliava su un fornello unto di grasso, scivoloso e maleodorante.
Il brodo della domenica.
La sagoma in penombra era di Tiberio che dormiva, forse a cinquant’anni, nel letto della madre. Quel giorno Dolores non aveva fatto nessuna freudiana associazione, ma lo aveva classificato fra i peggiori della sua vita. Oltre alla mostruosità palese di una donna malconcia, aveva percepito una bruttura più insita, profonda che non seppe spiegare e che rimosse fino a che fu adulta.
“È una brutta strega!” Aveva detto Dolores una volta scampato il pericolo.
Valeria si era risentita:“Come ti permetti? È la mia nonna!” I suoi neuroni avevano già iniziato a difettare. D’altro canto la poverina non poteva far altro che negare la disgustosa realtà di discendere da persone che avevano rovinato la vita a lei e a sua madre.
Il giorno che Dolores ebbe la conferma che lo zio cattivo era veramente cattivo, fu uno dei soliti in cui Valeria era passata a salutarlo in piazza.
Lo aveva sentito dire: “Dov’è quella puttana di tua madre?”
Valeria era impallidita senza riuscire ad aprire bocca. Dolores, che non sapeva il significato di quelle parole, ebbe la netta sensazione che alla zia Marcella non avrebbero fatto piacere.
Non sapeva interpretare il groviglio cui tutti accennavano né associava Adele a Tiberio. Sta di fatto che, non tanto attorno alla zia, quanto piuttosto alla cugina, incominciò a pensare si stessero incuneando pian piano losche figure dalle quali bisognava stare alla larga.


Valeria, a diciotto anni, si era trasformata in un donnone sovrappeso, dissolvendo ogni traccia della bellissima bambina dai ricci biondi che passeggiava con la madre, specchiandosi nelle vetrine dei negozi.
Più grande di Dolores di quasi vent’anni, a vederla ricordava molto di più il padre e per niente Marcella. Neanche da bambina c’era stato un accenno di somiglianza con la madre, ma da adulta c’era da chiedersi se le due fossero realmente anche solo parenti.
Fin da ragazzina portava in giro una mole boteriana sulla quale sventolavano lunghi capelli biondi, trattenuti da una fascia, senza più traccia dei boccoli perfetti di un tempo. Uscita dal collegio a ventun anni, non aveva sviluppato una mente adulta e benché ancorata a un corpo imponente da donnone maturo, percepiva il mondo come un romanzo di Liala, costellato di pretendenti nobili o aviatori.
Marcella invece, a quarant’anni suonati, conservava ancora la bellezza esotica del padre: la pelle ambrata, i tratti decisi e la faccia tosta della giovinezza. Esibiva una fisicità forte e sensuale, i capelli nerissimi e l’abbronzatura quasi perenne la facevano sembrare un’elegante signora sudamericana dal portamento ricercato.
Quando da giovane attraversava le vie del centro, stando ai racconti dei parenti, era impossibile non fermarsi a guardarla per la passionalità che emanava e per gli abiti che confezionava lei stessa con originalità e raffinatezza. Anche con l’età non aveva perso il carattere e incontrandola veniva spontaneo voltarsi. Cappotto rosso fuoco, bavero e cappello di cavallino, borsa e scarpe di coccodrillo in un tempo in cui gli animalisti non si facevano sentire.
La gente si voltava anche a guardare Valeria, ma per motivi decisamente opposti.
Mentre Marcella riscattava il proprio passato, nutrita dell’affetto del marito, il secondo, e di tutti gli amici, Valeria sopperiva alla mancanza d’amore con il cibo, allontanandosi sempre più dal mondo reale. Marcella torturava la figlia perché mangiava troppo e Valeria s’ingozzava per farle dispetto.
Veniva da pensare che madre e figlia fossero venute al mondo allo scopo di crearsi fastidio a vicenda.

Tiberio rappresentava per Marcella il periodo più buio. Di lui parlava poco e le volte in cui vi si faceva riferimento sembrava impermeabile, sorda come se tutto ciò che aveva a che fare con lui non le fosse mai appartenuto. La vita per lei si divideva fra prima e dopo; lui faceva parte del prima ed era escluso da quella dimensione nuova in cui poteva svegliarsi senza l’incubo del ricatto. Adesso era dopo, un’altra musica, un insieme di racconti e ricordi in cui, perfino quelli della malattia, prendevano colore, risultando addirittura piacevoli.
All’idea di Tiberio sovrapponeva piuttosto il catrame dei suoi bocchini, per non parlare dello sventramento o di tutti i morti di cui conservò così tante foto da riempire un mobile con vetrine da cui spuntavano decine di facce.
“Cava da lì quei morti che mi fanno senso!” Diceva Flavia.

Ai tempi in cui Tiberio aveva avuto un ruolo, lei era bellissima e spregiudicata, molto simile al padre nell’indole, indipendente ed egocentrica. Agiva in base a ciò che le saltava in mente qualunque fosse il punti di vista altrui. Tiberio era un bello, tenebroso, maschile, nel senso peggiore del termine. Ostentava forza e sicurezza, trapelando con orgoglio il profondo burino che era in lui. Lei non era neppure innamorata, ma per far dispetto a un altro che l’aveva rifiutata, le si era concessa, restando incinta con la conseguenza di doverselo sposare.
Nel ‘39 una donna poco meno che ventenne era pronta per metter su famiglia, dunque non ci fu niente da dire. Sarebbe bastato continuare a vivere sotto lo stesso tetto di Pellegrino con il proprio bambino, ma lei prese la cosa con leggerezza e senza immaginarne gli effetti, sposò Tiberio. Lasciò che Valeria assumesse il cognome di lui, firmando la sua condanna. Finì così in un tormento dal quale non si sarebbe mai ripresa.
I problemi si presentarono subito perché Marcella viveva in un mondo suo. Per dirne una, andare a ballare era un’attività che stava in cima alla sua scala di valori e neanche a trent’anni sarebbe stata pronta a fare la moglie.
A diciannove anni la vita le precipitò addosso definitivamente, insieme alla perdita, avvenuta qualche anno prima, di tutte le figure di riferimento. La madre, la sorella e la nonna di Marcella erano morte qualche anno prima, a distanza ravvicinata, provocandole una grossa frattura. Il matrimonio con Tiberio e soprattutto l’incontro con la suocera, fecero franare definitivamente quel mondo di superficialità e di sogni che le avevano permesso di sopravvivere all’ecatombe familiare.
Tiberio militava nel Fascio con mediocre reputazione. Non eccedeva in ingegno, era piuttosto limitato anche per la categoria stessa che non si distingueva né per vivacità d’intelletto né per numero di talenti. Faceva la sua parte, ostentando la divisa con vanto per l’idea in essa implicita e per fini puramente estetici. Sì, la divisa gli donava. Più la indossava più il numero di ragazze che si giravano a guardarlo rinforzava la sua autostima, confermandogli l’idea di essere un gran figo.
Marcella si era trovata in una condizione che non aveva messo in conto. Inconsapevole vi era sprofondata senza avere la minima idea di dove fosse andata a cacciarsi. Non immaginava in quale inferno potesse precipitare la sua vita, vissuta fino a quel momento in uno stato di rimozione costante dei propri problemi e dei lutti che l’avevano attraversata.

Come in un brutto sogno, a quindici anni nel giro di qualche mese aveva perso la madre, la nonna e la sorella maggiore, tutti i riferimenti della sua esistenza.
Pellegrino, suo padre, non si poteva definire propriamente un riferimento poiché era un uomo difficile, appartenente all’emisfero dei maschi ed era anche un po’ spostato. Eccentrico con pretese politiche, legato all’ambiente anarchico, Pellegrino di mestiere faceva il macellaio. Nonostante in certi contesti potesse passare magari per uomo di cultura, nell’emisfero affettivo emergeva una forte contraddizione poiché contribuiva quotidianamente a creare condizioni invivibili ai suoi familiari. Aveva, infatti, costretto tutti a una vita di angoscia perché neppure lui sapeva con quale astrusa convinzione, si sarebbe svegliato il giorno dopo.
“Il babbo era matto“ Sosteneva Marcella, scuotendo la testa.
“No! Il babbo era cattivo!“ Ribatteva Flavia. Delle tre sorelle, con il padre aveva avuto il peggior rapporto. Pellegrino l’aveva ignorata fino all’età adulta, ritenendola causa delle sventure familiari.
Una serie di disgrazie si era abbattuta sulla famiglia di Marcella. Lei, una ragazzina e Flavia, allora bambina di otto anni, si erano ritrovate sole, senza un sostegno. Sole, con un padre che prima di allora aveva provveduto, quasi esclusivamente a se stesso e non era particolarmente propenso a occuparsi delle figlie. Per lui erano oggettivamente impegnative anche solo per il fatto di essere femmine.
Flavia era stata destinata senza indugio al collegio delle orfanelle, benché orfana non fosse proprio del tutto. Marcella invece era stata destinata a se stessa, seppure sotto la custodia del padre con il quale era sempre stata in contrasto.
Difficile dire a quale delle due fosse toccata la sorte peggiore.
Da allora la sua vita era cambiata. Senza più la madre e la sorella maggiore, Valeria, di cui la figlia aveva poi preso il nome in sua memoria, Marcella si era dedicata con tutta se stessa ad una vita spensierata. Per far fronte a tutte quelle perdite, nel giro di pochi mesi aveva scelto la strada della superficialità, pensando piuttosto a divertirsi, andare a ballare, cucire vestiti e curare il suo aspetto, collezionando fidanzati.
Pellegrino la riempiva di botte, la chiudeva in casa e lei usciva dalla finestra. Pellegrino non voleva che fumasse e lei fumava tutto il giorno, sempre alla finestra perché i vicini potessero vederla. Per sfregio tirava di sotto mozziconi accesi, dando fuoco un giorno, al costoso ombrello di seta del padre accuratamente posto sull’uscio.
Non aveva bisogno di troppe attenzioni per rendersi attraente. Aveva fin da piccola energia sufficiente da coinvolgere il prossimo in vortici di entusiasmo, furbizia e seduzione, sostenuti dal suo aspetto. Gambe lunghe, prosperosa, con una cascata di ricci neri, suscitava le invidie delle ragazze che mal tolleravano la fila dei pretendenti, decisamente propensi a passarle in secondo piano quando lei era nei dintorni.
Non c’era un maschio cui Marcella fosse indifferente, perfino “un travestito”, com’era solita dire, aveva nutrito per lei un’amicizia profonda, condividendo il gusto per gli abiti, il maquillage e la cucina. Ma questo fu dopo la nascita di Valeria, quando le fu tolta e chiusa in un istituto, lontano da una madre evidentemente indegna.
Cantava a squarciagola con la finestra aperta:
“Non m’importa nieeente di quello che dice la geeente!” per sfidare i vicini o i passanti che desideravano mettere al corrente del suo anticonformismo. Non è detto che quel suo modo di ostentare trasgressione e originalità non nascondesse il bisogno invece di una vita normale. Tuttavia la sua stravaganza e quella del padre inducevano a pensare piuttosto a una vena di follia. Forse era presente da sempre nella famiglia, anche prima di tutti quei lutti. C’era da chiedersi se tutte quelle donne, non avessero contribuito a nasconderla.

*
Dalila, la madre di Marcella, aveva ceduto alla corte serrata ed estrema di Pellegrino, un uomo fatto, non proprio bello, ma con quei modi destabilizzanti e confusivi che nei secoli hanno attratto la molteplicità delle donne. Pellegrino che era innamorato, o così credeva, ci mise tutto il suo impegno e la conquistò.
Come Marcella, Dalila era bellissima e all’epoca in cui non andavano tanto di moda le donne simpatiche e intelligenti, l’aspetto era probabilmente il primo se non l’unico elemento attraverso il quale le storie venivano imbastite.
Pellegrino entrò in una dura competizione con un altro pretendente, un medico benestante, canonico e serio che la famiglia di lei vedeva di buon occhio. Non fosse altro per l’ipotesi di un bisogno improvviso al quale il medico avrebbe potuto gratuitamente porre rimedio.
Pellegrino però si esibiva in serenate proverbiali, presentandosi in abiti di lino bianco e costosi cappelli, affinando l’abile tattica del “ci sono, non ci sono”, attraendo sempre più la docile Dalila i cui genitori, il giorno che scelse Pellegrino, videro sbriciolarsi il loro sogno.
Da quel matrimonio erano nate cinque o sei bambine.
Marcella aveva sempre raccontato versioni diverse e Flavia era troppo piccola per ricordare le sorelle. Le prime figlie erano morte premature, le altre erano sopravvissute e il nucleo familiare era rimasto invariato per circa vent’anni, sebbene martoriato dalle trovate di Pellegrino.
Per tutta la durata della loro unione, Pellegrino non perdonò mai a Dalila di aver conservato nel cuore il medico cui, forse, qualche volta aveva pensato, dandosi della scriteriata per aver compiuto una scelta tanto folle. Pellegrino era geloso, del medico perduto, delle figlie, delle persone, delle idee e dei pensieri di Dalila che per altro fino all’ultimo non espresse mai né diede al marito conferma dei sospetti infondati di adulterio. Come prova dell’infedeltà della moglie Pellegrino prese a pretesto il fatto che lei gli dessero solo figlie femmine mentre lui voleva dei maschi, anche uno solo, che la discolpasse per sempre. Quando dopo quindici anni nacque Flavia fu la discesa all’inferno. L’inizio in cui le stranezze di Pellegrino degenerarono in atti di pura cattiveria verso la moglie, le figlie e anche verso la suocera che era andata a vivere sotto il suo tetto e che evidentemente non lo aveva mai potuto soffrire per il disappunto che le manifestava apertamente. Per loro sfortuna tutte quelle femmine dipendevano in gran parte da lui che, con un’avviata macelleria, poteva permettersi una vita agiata e seminare il terrore in casa.
La professione, sommata a quella famosa vena pronta a schizzare follia, metteva un certo senso d’inquietudine. Insomma non una volta passò per la testa di tutte quelle donne l’idea che Pellegrino, un giorno o l’altro, potesse farle a fette. Le spaventava a morte, arrotando coltelli per tutta la notte, chiudendosi per giorni in snervanti silenzi, andandosene di casa per settimane per rientrare di soppiatto.
Le lasciò sempre senza un soldo mentre lui mangiava carne, andava alle terme, viaggiava, si recava all’estero per visionare il bestiame. Restava fuori di casa a lungo e mentre loro si arrangiavano con lavori di sartoria e con gli aiuti dei parenti, lui compiva entrate trionfali in paese, scendendo da una carrozza elegante con in testa eccentrici cappelli o la barba lunga fino al petto ad emulare Barbablù.

Dopo venticinque anni di matrimonio Dalila se ne andò all’altro mondo senza sognare il medico perduto, con la paura per le figlie, per il loro futuro, per Flavia ancora così piccola e per quell’amore incompreso, non creduto e scarsamente condiviso dall’uomo che, strano a dirsi, aveva sinceramente per quanto inspiegabilmente amato per tutta la vita.
Valeria seguì la madre qualche mese più tardi. Morì di meningite benché non ci fosse un presupposto, fosse il ritratto della salute e riuscisse a prendere la vita senza opporsi. Forse per questo ne fu travolta.
Parlarono di quella sorella amabile e serena che le aveva guidate nell’infanzia con pazienza e bontà, provocando per tanto tempo commozione e rammarico per una perdita insopportabile ancor più di quella della madre.
Marcella ne parlava come della “povera” Valeria così come un tempo ci si riferiva ai morti, ma non diceva la povera mamma. Per lei che, alla morte della madre, aveva riposto tutte le speranze nella sorella maggiore, la perdita di Valeria fu un colpo al quale non seppe rispondere se non costruendo un’identità alternativa a tutto quel dolore.
Rimase da sola con Pellegrino che, con la morte della figlia maggiore, dette ancora di più i numeri, chiudendosi in un rimorso atroce dal quale nessuno fu in grado di distoglierlo. Divorato dal senso di colpa per non aver salvato la figlia prediletta o piuttosto per non averle mai mostrato di volerle bene come avrebbe meritato, urlò di dolore menando pugni sulla bara, incapace di accettare la fine di quella breve vita cui lui non aveva creato che sofferenza e disagio.
Anche durante la vecchiaia Pellegrino sostenne, senza tradire un’emozione, che ogni notte Valeria, la figlia morta, andasse a trovarlo per chiacchierare insieme a lui fino al mattino.

A distanza di qualche anno dall’ecatombe, a Marcella toccò sposarsi Tiberio di cui non era innamorata. In fondo era un bel ragazzo e le amiche la invidiavano. Nonostante quella gravidanza non fosse proprio desiderata, poteva diventare l’occasione per esserne addirittura felice. Il fatto che Tiberio non rappresentasse ciò che desiderava e che non ne fosse innamorata, sarebbe anche potuto passare in secondo piano. Qualche dubbio tuttavia le sarebbe dovuto venire, almeno riguardo all’assetto familiare che ricordava in tutto e per tutto gli inferi.
Già Tiberio da solo sarebbe bastato a demotivare qualunque donna del potenziale di Marcella, ma lei, non avendolo ancora conosciuto bene, pensò di potersene fare una ragione. La suocera però era tutta un’altra cosa. Per quanta fantasia potesse avere, non avrebbe mai immaginato l’abominio che l’aspettava, costretta a vivere sotto lo stesso tetto di due esseri tanto spregevoli.
Ogni pretesto era motivo di rimproveri da parte di Adele. Avvelenata dal tradimento del figlio, irretito da quella poco di buono, si rivolgeva a Marcella dandole della puttana a ogni intercalare. Per lei, che era capace solo ad aprire le gambe con il primo venuto, era una fortuna aver trovato il pollo che se l’era sposata, offrendole una posizione.
Il pollo si era rivelato in realtà una bestia feroce e se per la suocera ogni momento era buono per insultarla, per Tiberio invece ogni frase riferita da Adele sulle inadempienze di Marcella, aveva come conseguenza un carico di botte, benché fosse incinta di suo figlio. Non era neppure certo che fosse il suo, vista la vita che faceva, riferendosi a tutti i ragazzi che a suo parere si era portata a letto.
Marcella aveva smesso di mangiare. Le toglievano il pane di bocca, accusandola di essere una sprecona, abituata a non far niente, a non guadagnare il cibo. Con l’andare del tempo le era diventato impossibile ingerire una cosa qualunque in quella casa degli orrori.
Quando nacque Valeria e Flavia andò all’ospedale, ansiosa di rivedere i suoi familiari, elettrizzata dal fatto di essere diventata zia, stentò a riconoscere la sorella. La trovò denutrita, spenta, con il volto scavato, i capelli raccolti in uno chignon, avvolta in una vestaglia incolore, trasformata in una vecchia.

Diventato nonno, Pellegrino riempì la figlia di attenzioni e cibo, destando disgusto nella consuocera. Nonostante angariasse Marcella, Adele di fronte a lui diventava di miele, assecondandolo e fingendo di riservare alla nuora affetto ed attenzione. Pellegrino poteva anche essere spostato, ma non era scemo. Sapeva cosa pativa la figlia e intuiva che alla nascita di Valeria le cose si sarebbero messe molto male per entrambe. Conosceva bene i due beceri e per la prima volta in vita sua iniziò a non dormire sonni tranquilli. Per lui che neanche Mussolini aveva piegato, si presentò l’eventualità di dover subire e quel che era peggio, doversi sottomettere a due ignobili personaggi come Tiberio e sua madre.
Valutò un contrattacco. Se non poteva riavere indietro la figlia e godersi la nipote, poteva almeno dare un segnale, rivelando ciò di cui era capace.
Pellegrino era un gran cuoco, sebbene cucinasse solo per se stesso. Considerata la moria che c’era stata a casa sua e considerato che, quando tutti erano vivi lui cucinava comunque solo per sé. A quel tempo la carne scarseggiava, ma per lui, macellaio di professione, il problema non sussisteva. L’amicizia con Pellegrino, malgrado le sue stranezze, era dunque cosa da considerare. Lui però, per sbarcare meglio il lunario in tempi di magra, andava a caccia di gatti che normalmente smerciava per conigli; una volta tolte teste e zampe chi andava a sindacare? Soprattutto se il coniglio era offerto.
Preparò un piatto succulento, un coniglio al sugo fatto ad arte e l’offrì con fare gentile ad Adele. Lei pensò a un armistizio del consuocero che non l’aveva mai degnata di uno sguardo. Dopo qualche giorno, passando a trovare la figlia e la nipote, Pellegrino si fermò a chiacchierare amabilmente con Adele per chiederle poi a un certo punto:
“Allora Adele, era buono il coniglio?”
Adele si era profusa in complimenti per la prelibatezza del piatto. Contando magari su una replica, dava per scontato che la nascita della nipote avesse finalmente convinto Pellegrino a sborsare denaro e a procurare cibo, come avrebbe dovuto.
“Buonissimo, saporito, cotto beeeene!“ Elogiava, roteando la mano, socchiudendo gli occhi, quasi a convincerlo che avrebbe apprezzato una seconda portata. Lui visualizzava la sofferenza della figlia, sentiva la falsità farsi persona e assaporò la sua vendetta, spingendosi in un affondo che prese Adele completamente alla sprovvista.
“Era un gatto!” Scandì bene con un sorriso malizioso quasi stesse dicendo “Ti ho fatto uno scherzo”, godendosi invece la conseguenza di quel gesto calcolato, aspettandone l’epilogo.
Il sorriso compiacente sulla faccia di Adele andò scemando. Si trasformò prima in espressione sorpresa quasi divertita, incerta se aver compreso bene oppure no. Poi iniziò a trapelare lo sconcerto mentre le viscere si preparavano all’espulsione di quel coniglio succulento divenuto di colpo troppo indigesto.
Adele aveva finalmente vomitato le budella di fronte a Pellegrino impassibile. Per niente disgustato dallo spettacolo di Adele già ripugnante di per sé, l’aveva osservata sussultare per i conati, mentre tentava di liberarsi del gatto ormai inevitabilmente metabolizzato e depositato sul suo tessuto connettivo.


Quando finalmente Tiberio partì per l’Africa con le Camice Nere, Marcella tirò un sospiro di sollievo. Nonostante le nefandezze di Adele, che ripeteva a Valeria che sua madre era una puttana, senza perdere un’occasione per maledirla e offenderla, Marcella iniziò a intravedere uno spiraglio di libertà. Paradossalmente la guerra le offrì uno scappatoia. Dopo un bombardamento che aveva raso al suolo la città, Pellegrino organizzò una fuga verso la campagna. Si portò via le figlie, nascondendo la piccola Valeria sotto il mantello, augurandosi che sopravvivessero qualunque fosse il loro destino.
Marcella trovò lavoro e nonostante l’infuriare della guerra, per qualche tempo poté sottrarsi dalle grinfie del marito e della suocera, ritrovando una famiglia che, per quanto disastrata, le si era stretta intorno. Sperava che Tiberio fosse dato per disperso o che, nella migliore delle ipotesi, morisse.
Per la naturale propensione a guardare il mondo solo dalla sua prospettiva, adottò un comportamento da single, come se tutto ciò che aveva passato in quei due anni non fosse successo, come se marito e suocera fossero deceduti e lei potesse permettersi di ricominciare un’altra vita. Lontana da quei due esseri ignobili, aveva ripreso la voglia di vivere e non passò molto tempo prima che il carattere libero e ribelle riemergesse dal torpore causato dalla costrizione e dalle violenze subite.
Si fidanzò con un tale che viveva in un’altra città. Fece l’errore di seguirlo, portandosi dietro Valeria che non aveva idea di chi fosse suo padre né ricordava bene, data l’età e per sua fortuna, i tratti somatici della nonna.
Quando le cose però sembravano aver preso una piega, per così dire normale, Tiberio tornò dall’Africa. Non andò a riprendersi la moglie che aveva sempre disprezzato per il dispiacere procurato alla madre, la accusò invece, come d’uso ai tempi, di abbandono del tetto coniugale, recriminando la figlia che gli spettava di diritto come merce propria.
A dispetto dei fatti non ci fu giudice né tribunale disposto ad ascoltare la verità perché la verità, per la legge, era che Marcella aveva abbandonato il marito e se n’era andata con un altro, comportandosi indegnamente. La verità era che, in qualunque posto fosse fuggita, la mano di Tiberio si sarebbe prolungata su di lei come un artiglio per procurarle profonde, inguaribili ferite indotte attraverso la sua bambina. La verità scaturiva da una legge ingiusta che condannava le donne a subire, mettendo a tacere ogni voce a loro discolpa.
Tiberio, secondo la giustizia del tempo, aveva tutte le ragioni per strapparle via Valeria. In realtà per dispetto, per ferire Marcella, non la prese nemmeno con sé, la spedì in un collegio, dichiarando di non poter provvedere alla bambina. Le garantì però la frequentazione con la nonna, dalla quale poteva fare ritorno nei fine settimana e di godere quindi di quella presenza amabile che tanto aveva fatto per riabbracciare la nipote. L’importante era toglierla definitivamente dall’influenza di quella madre snaturata. Finalmente Marcella, com’era giusto, non poteva più nuocere alla bambina e soprattutto non avrebbe più procurato alcun dolore a Tiberio e alla sua miserabile madre.
*
Per Marcella si chiuse il sipario. Allontanata per sempre dalla figlia, non le restò che uscire da quella scena in cui Valeria aveva davvero rappresentato qualcosa e dato un significato alla propria esistenza. La piccola diventò un miraggio che poté solo rincorrere nei lunghi anni che la separarono dalla maggiore età.
A Marcella era vietato vedere Valeria e ogni volta che desiderava riabbracciarla doveva sottomettersi ai voleri di Tiberio, andando a letto con lui come e quando lo decideva. In cambio le era accordato un permesso speciale: una gentile concessione, per bontà di chi non voleva negare a una madre, per quanto una poco di buono, di incontrare la figlia. Naturalmente a patto che il presupposto fosse la stretta sorveglianza delle suore.
Marcella si trasferì in una città più grande, lontano dalla sua famiglia e da Valeria alla quale col tempo smise di pensare come un tarlo, arrendendosi di fronte agli eventi. Riprese la vita di sempre, ritornando ancora una volta a frequentare gente, a divertirsi, a cambiare lavoro, adattandosi alle richieste del momento, per niente spaventata all’idea di essere indipendente.
Si riprese in mano, riemerse dalle proprie ceneri, tornando a mostrare quel carattere deciso e prorompente, senza vergogna per la sua reputazione. Ritornò a essere l’originale piena di stile che era stata, promettendosi di non ripetere più gli errori di prima e d’ora in avanti di contornarsi solamente di persone uguali a lei. Fu in quel periodo che conobbe il travestito che di giorno faceva il panettiere insieme con lei e di notte si esibiva nei night e una prostituta d’alto bordo che le chiese di far da madrina alla comunione della propria figlia. Si risollevò del tutto, dissociandosi dal dolore al quale si riuniva sistematicamente ogni volta che andava a trovare Valeria.
Poi, il vento iniziò a soffiare dalla sua parte, spingendola in una prospettiva non calcolata: nel 1951 Marcella conobbe Gregorio.
Gregorio era uno dei pochi a essersi laureato prima degli anni quaranta. Aveva frequentato la facoltà di economia ed era diventato funzionario delle ferrovie quando era ancora giovane. Proveniente da una famiglia aristocratica, era un concentrato di buone maniere, ma anche se fosse cresciuto nei bassifondi, sarebbe stato un signore comunque. Dopo trent’anni di convivenza lei sosteneva che fosse un signore dentro.
Fin dalla prima volta che vide Marcella, Gregorio non poté più esimersi dal comprare ogni giorno qualche cornetto di pane. Non era una bellezza, un po’ sovrappeso, sempre in giacca e cravatta aveva l’aria dell’esattore delle tasse sul quale era difficile posare lo sguardo se non in modo distratto. Non attirava attenzione ma formale cortesia. Marcella s’insinuò come un tarlo e lui si sentiva ubriaco, ammaliato, condotto verso la bottega del panettiere come se al mondo tutto il resto fosse stato raso al suolo. Lei gli sorrideva, riservandogli cordialità e gentilezza. Lo chiamava per nome come tutti i clienti che trattava come amiconi, facendoli sentire persone di casa.
Era interessata a tutti e a nessuno, profondamente convinta di non dover lasciar perdere nessuna possibilità di conoscere il mondo ed allo stesso tempo vivamente intenzionata a non legarsi con nessuno che valesse la pena.
Gregorio valeva la pena, anche solo per quei modi tanto gentili e appassionati che la facevano sentire una regina. Durante le loro uscite lei sproloquiava e lui rideva, lei raccontava delle sue dubbie amicizie e lui si stupiva di quel fare spregiudicato, inammissibile per ciò che era stata la sua educazione.
Gregorio aveva frequentato fino allora facoltosi laureati. Lei, prostitute e basso proletariato. Ma l’estrazione sociale non fu un problema.
La accompagnava dovunque lei chiedesse, prevenendo ogni suo desiderio, destando un senso di sorpresa per non dire di timidezza mai provata prima. A vicenda avvertivano lo stesso sentimento di inadeguatezza l’uno verso l’altro. Lei per non meritare tanto delicato amore, lui per non essere degno di tanto entusiasmo e di tanta bellezza. Dalla comune sensazione di non essere all’altezza, nacque un amore destinato a resistere per sempre.
Iniziarono così una relazione stabile. Dopo qualche tempo andarono a vivere insieme, lei rinunciò all’indipendenza economica e Gregorio si occupò di tutti i suoi bisogni, compreso quello di occuparsi di Valeria quando e come poteva. Per niente scandalizzato dai precedenti di Marcella, Gregorio si fece suo paladino, cercando di sostenerla e incoraggiarla a mantenere con la figlia un legame, anche se debole e malandato. Di Tiberio non fece mai menzione perché appunto era un signore, incline a non esporsi, a non abbassarsi a certi livelli. E per mettere Tiberio e Gregorio sullo stesso piano di fantasia ce ne sarebbe voluta tanta.
Con i suoi mezzi e i suoi modi cercò di farsi carico di Valeria, corrompendo le suore del collegio che, accettando i regali che lui faceva senza risparmiarsi, concedevano visite straordinarie a Marcella. Elargendo cibo e denaro a piene mani per il convento, riuscì a convertire il giudizio su quella madre mostratasi immeritevole. In fondo sembrava intenzionata a redimersi in modo definitivo. Valeva la pena accordarle qualche visita straordinaria.
Quando finalmente Valeria uscì dal collegio e madre e figlia ebbero scontato quella lunga detenzione, non era rimasto più niente di ciò che erano state. Ognuna ricordava all’altra il peggio. Valeria avrebbe rimproverato per sempre la madre d’inadempienza, seguendo l’eco dell’indelebile imprinting di Adele. Del resto quella vecchia arpia aveva affinato per anni le unghie ai danni della nipote. Marcella avrebbe provato invece un senso di vergogna alla vista della figlia che tutto sembrava tranne che figlia sua. Valeria le ricordava le violenze subite, le scelte sbagliate, la sofferenza reale di chi viene umiliato e privato di tutto.
Quando Valeria, a ventun anni, uscì dall’istituto, con la testa piena di scemenze inculcate dalle suore, non essendo propriamente il ritratto di Jane Eire, andò a vivere con Marcella e Gregorio. Lui la amò come un padre per tutta la vita. Le trovò un lavoro, mettendosi in mezzo ogni volta che lei e Marcella litigavano, tollerando la mente infantile che albergava dentro a quella mole devastata dalla bulimia.
Gregorio e Marcella non ebbero la fortuna di avere figli, ma si occuparono per molto tempo di Dolores. Fin da adulta frequentò la loro casa più volentieri che la propria benché in generale, con i presupposti di quella grande famiglia, si sentisse fortunata a essere ciò che era e soprattutto di ciò che aveva. Il suo nome, Dolores, pareva riassumere la storia della sua famiglia nella speranza però di esorcizzarne l’essenza.
Marcella continuò a contornarsi di amici e parenti, i suoi, quelli di Gregorio e quelli conosciuti lungo il percorso di vita sia che fossero dirigenti o semplici ferrovieri. Sia in città sia al mare i suoi ospiti sfilarono, portando via risate e paradossi che sarebbero diventati patrimonio culturale di ognuno e ricordati come “i fatti della signora Marcella”.

Marcella veniva ricordata o citata per le gaffes e le astrusità che verbalizzava senza provare nessun imbarazzo. Locuzioni e spropositi ne avevano fatto un mito.
“De gustus non est sputandum, sui gusti non si sputa!” citava, traducendo dal latino. La frase in genere era recitata per qualcuno che aveva scelto un fidanzato poco adatto. Come una coppia di sua conoscenza, lui un omino magro davvero poco avvenente, lei, la Grazia, un vagone che si alimentava di fobie, compresa quella per gli animali. Tutti gli animali. Compresa una tortorina che Gregorio aveva salvato e che doveva nascondere prima che salisse su la Grazia, che strillava già dall’atrio del palazzo:
“Signor Gregorio ha messo via quell’uccello?” Gregorio correva a nascondere la sua tortora, ma non per le grida ingiustificate ed anche un po’ azzardate della Grazia, per la tortora che avrebbe potuto restare traumatizzata di fronte a quell’universo di ciccia urlante.
Quando si parlava dei due e delle inspiegabili alchimie che li avevano messi insieme, Marcella sfoggiava la filosofia che “sui gusti non si sputa”.
E non c’era verso di correggerla perché con fare indispettito, rivoltandosi come una tarantola, si rivolgeva a Gregorio accusandolo di voler fare l’intelligentone. Prima lo infamava, poi gli si avvicinava e abbracciandolo gli diceva piena d’affetto: “Il mio Gregorione!”
Gregorione inarcava le sopracciglia sempre sorpreso e divertito dai repentini cambi d’umore della “sua” Marcella.
Lei faceva inviti e lui pagava i conti, conversava, si rendeva amabile amalgamandosi a tutti quelli che occupavano la sua casa, un appartamento di duecento metri quadrati, pieno dei suoi libri (di Gregorione), dei romanzi rosa di Valeria e dei quintali di oggetti che Marcella collezionava, marchiandoli con il suo inconfondibile odore.
Fra i tanti ospiti fissi e regolari di Marcella c’era una parente, cieca dalla nascita, che viveva per coincidenza nella stessa città, in un istituto per non vedenti soli. L’Evelina. Marcella parlava delle smisurate doti della lontana cugina e di quanto, nonostante quell’handicap tremendo, fosse bravissima a cucire, lavare, stirare, con la precisione di uno che ci vedeva.
“Meglio di uno che ci vede cara mia!” Sosteneva con chiunque. L’Evelina era uno dei suoi fenomeni: “Guarda, l’ha fatto l’Evelina!” e mostrava un golf dai punti complicati. “Incredibile! Ma come farà?”
L’Evelina, oltre ad avere qualità manuali inspiegabili, aveva un eccezionale gusto per la tavola nonché uno stomaco con una tenuta galattica. Per questo a tavola sembrava compensare il suo handicap, fagocitando con allegria le portate che Marcella le riservava. Più che un tubo digerente sembrava avere un tubo catodico con il quale neanche Valeria poteva competere.
“E’ un piacere vederla mangiare” era solita dire Marcella della cugina. Tranne un giorno però in cui probabilmente la permanenza di Evelina iniziava a pesare.
“Dio mio Evelina, se Santa Lucia ti mantiene la vista come l’appetito …”. Non era riuscita a terminare la frase solo perché non la ricordava. Valeria e Gregorio avevano rischiato di strozzarsi col cibo. Alla fine si era messa a ridere anche l’Evelina che era cieca, ma ci sentiva discretamente.
Tra un ospite e l’altro, Marcella condusse una vita sempre protesa verso le relazioni, le persone e le loro storie. Un’enciclopedia vivente di fatti da raccontare, da distorcere e colorare sia che si trattasse di eventi tragici o lieti. Metteva al corrente Flavia e Dolores di nascite e morti di gente sconosciuta, accomunandoli nelle stesse vetrine.
“Non mettermi mica là dentro, insieme ai morti!” diceva Flavia. Marcella sorrideva e fra una sigaretta e l’altra rispondeva:
“Cos’è tutta sta paura della morte? Io non ho paura, io voglio farmi cremare, e poi quando muoio ti lascio il mio anello, questo qua”.
Allungava l’anulare ed esibiva il brillante, che le aveva regalato il “suo” Gregorio mentre Flavia, sempre oppressa dai lutti dell’infanzia, le intimava il silenzio.
“Mi sono iscritta per farmi cremare!” Raccontava con naturalezza in tempi in cui la cremazione non faceva ancora parte delle abitudini della gente. Scendeva in quei particolari grotteschi che i suoi interlocutori avrebbero conservato nella memoria con un misto di allegria e raccapriccio.


Marcella e il suo Gregorio poterono sposarsi solo in età avanzata, dopo l’entrata in vigore della legge sul divorzio che consentì a tutti, e a tutti quelli come loro, di sentirsi uguali e con gli stessi diritti.
Tiberio morì in solitudine e anziano, quando anche Valeria non gli rivolgeva che un pensiero saltuario, poiché suo padre era, ormai di fatto e da tanto tempo, Gregorio.
Il padre biologico di Valeria le lasciò un po’ di denaro solo perché lei era l’unica parente. Gregorio, che si occupava dell’amministrazione e di tutte le beghe familiari, la accompagnò in banca per aiutarla in un’operazione di cui non sapeva nulla e a spiegarglielo sarebbe stato impossibile. Lui sapeva come comportarsi e la scortò per il trasferimento dell’eredità di Tiberio sul suo piccolo conto. Inorgoglito di mostrarsi in banca nel compiere un gesto di cavalleria si era presentato all’impiegato dicendo:
“Buongiorno questa è mia figlia, l’accompagno perché suo padre, che è morto di recente …” Si era accorto di essere inciampato su una frase impropria e si era messo a ridere ancor prima di finirla. Tutto perché non voleva sminuire né il ruolo di Tiberio (neanche da morto) né il proprio. Gregorio, il “dottore”, come continuarono a chiamarlo per il rispetto che meritava, fu a tutti gli effetti il padre di Valeria.
In primo luogo però fu il marito di Marcella, la “signora Marcella”.

Alla morte di Tiberio, Marcella e Gregorio vollero sposarsi anche in chiesa. Scelsero una chiesetta in collina e invitarono i parenti stretti, quelli ancora vivi e gli amici selezionati per l’occasione. Coronarono il sogno e chiusero il cerchio finalmente nella legalità.
Lei in un abito di seta verde sfoderava sorrisi al rossetto, questa volta velati di sincera commozione per aver atteso così a lungo la sua quiete. Lui schivo e imbarazzato con il suo look preferito: vestito a giacca e cravatta, esternando tutta la cavalleria e la signorilità di cui era capace, coinvolto fin nell’animo nella sua cerimonia d’onore.
Il dottor Gregorio e la signora Marcella uscirono dalla chiesa un giorno di prima estate mentre lui le porgeva il braccio e lei accendeva una sigaretta.
Dolores si congedò dagli zii prima della fine del rinfresco, accuratamente organizzato con garbo e raffinatezza. Si scusò senza provare imbarazzo poiché si trattava di una temporanea uscita di scena. Mentre avviava l’auto lungo il viale, li guardò ancora una volta dallo specchietto: piccole spirali di fumo si dipanavano e si dissolvevano intorno agli zii come i ricordi comuni, destinati a insinuarsi nel profondo del suo cuore.

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