Tornai a casa da Parigi, in tempo per il compleanno di mio padre. L’anno accademico era terminato così come il mio contratto: da settembre a giugno a insegnare italiano in una classe di bimbi benestanti. Le famiglie avevano richiesto qualcuno preparato e rigorosamente di madrelingua.
Il fatto che fossi poco più che ventenne non li aveva preoccupati, ma sapevo perché. Il docente che mi aveva sostenuto, aveva anche urlato ai quattro venti di chi ero figlia e quale garanzia costituiva essere cresciuta nella casa di un genio. Nessun dubbio sulla mia competenza poiché, diversamente da tutti i comuni mortali, invece di normali pasti io mi ero nutrita della sapienza di Andrea. Il genio della letteratura francese.
Tra un sobbalzo e l’altro del treno, che allora mi riportava a casa, ripresi a muovere le immagini a ritroso, nella consuetudine che mi caratterizza di rivedere il passato e i suoi protagonisti, primo fra tutti mio padre. Fra tre giorni avrebbe compiuto quarantatré anni. Io ne avrei compiuti ventitré dopo una settimana e come sempre avremmo festeggiato insieme. Un rito irrinunciabile che si era interrotto solo una volta, in un periodo buio della vita di cui non amavamo parlare.
Ambientazione e cast si sarebbero riproposti tali e quali, come ogni anno, tranne che per una variante significativa. Era prevista una novità, anzi due: la presenza mia madre Lucia il suo nuovo compagno, Bruno il medico. L’ex moglie di mio padre non metteva piede in casa nostra da sette anni. Mi chiedevo se davvero ci si potesse fidare, in particolare ritornando in un terreno su cui, negli ultimi anni non era stato gettato nient’altro che diserbante.
Andrea però adesso stava con Margherita, si era calmato e nonostante desse da intendere che la loro fosse una relazione disimpegnata, lei lo teneva stretto, mantenendo, in modo più o meno evidente, la rotta. Prima di incontrarla, Andrea beveva troppo e quando lo faceva, pubblicamente perché era rivoluzionario, sfoggiava il peggio di sé come tutti gli alcolisti della terra. Anche quelli non rivoluzionari. Del resto si era ritrovato da solo, con una figlia di cui non era mai stato responsabile, incapace di rivolgere un pensiero che non fosse all’Università o alla politica, incazzato più con se stesso che con mia madre. Per anni si era rivolto a lei dicendo “quella cretina”, fino a che la cretina non era stata rimpiazzata dalla Marghe.
Cedendo al dondolio del treno, pensai a quanto fosse riduttiva quella riflessione e a quanto ancora lo giudicassi, lui e il mondo in cui ero caduta.
Mi domandai dove mi sarei seduta, se accanto a lui o a Habel o alla piccola Arianna o a sua madre Sara. Oppure mi sarei accomodata fra i miei nonni che mi avevano cresciuto, ritagliandomi un pezzo di normalità e di amore pulito. Come sempre mi salì la vecchia incontenibile emozione.
Tornavo al mio posto e il mio ritorno scandiva il tempo della festa, rinforzando un sentire comune che ogni anno si concretizzava nel giardino di casa nostra. Nonostante le separazioni, i distacchi, nonostante gli anni, i governi e le stragi che si erano succeduti. Nonostante tutto.
Nel corso dell’ultimo anno coloro che avrei ritrovato, erano venuti a turno a Parigi, confermando un legame saldo che mi faceva sentire a casa anche quando casa era troppo distante.
Habel, il mio compagno, era venuto più spesso, compatibilmente con i suoi impegni e con le sue risorse. Aveva iniziato tardi la carriera di psicologo, superando in silenzio e con fatica un lungo periodo di dipendenza dalla droga.
Ero consapevole di vivere in un “giardinetto patologico” per dirla come Laura, la mia migliore amica. Con lei avevo imparato a ridere delle mie sventure ai tempi dell’Istituto Magistrale. Più o meno dal giorno in cui Lucia, mia madre, se n’era andata da casa. La stessa casa nella quale era in procinto di rientrare con il medico Bruno.
“Oh dio!”Feci d’istinto, tornando a sentire la paura, nonché la responsabilità del conflitto fra i miei genitori. Mi chiesi se per caso mio padre avesse in mente qualche colpo di scena. Ma no, in fondo si era calmato.
“Allora è deciso, ci siamo tutti!” La Marghe con il suo entusiasmo innato aveva dato per scontato anche il mio. Ero indecisa se crescere una buona volta o restare in panchina e guardare, con scettico distacco, i grandi giocare anche la mia partita. Combattuta fra subire l’ennesimo compleanno di mio padre (e il mio) e desiderare di assistervi, deponendo le armi.
Malgrado le elucubrazioni, una volta a casa, d’istinto ripresi il mio posto.
Ognuno aveva preparato qualcosa di personale da condividere, secondo i dettami della tradizione che a onor del vero un po’ si era modificata. Ricordavo che un tempo Andrea sedeva a tavola, cimentandosi in un’unica fatica, quella di reggere la forchetta. Da qualche anno invece collaborava. Più su sollecitazione che di sua iniziativa, imponendosi però con una principesca insalata di pollo. Un fenomeno anche in cucina.
“Meno male che ‘sta festa si fa in estate!” Era stato il commento di Renato, il miglior amico di Andrea. Alludeva alle scarse probabilità che mio padre preparasse qualsiasi altro piatto, magari un gulasch o un arrosto. Qualcosa che implicasse l’utilizzo del forno, di una padella o di un tegame. Fingeva come tutti noi di avercela con lui, nascondendo la convinzione che fosse davvero speciale, in particolare nel tenerci uniti, vivi e sagaci l’uno nei confronti dell’altro.
Sfidando la gastrite e la propensione all’isolamento, all’ombra di mio padre, avevo deciso di collaborare, dedicandomi a qualcosa di digeribile: un’insalata di riso che, come disse mia nonna, in fondo ha un suo perché.
“Insalata due, la vendetta!” Aveva commentato Pietro, il fidanzato di Laura. Lei, attenta alla linea, reggeva un piattone colmo di mozzarella, pomodori e basilico, una caprese insomma; lui piantonava il barbecue dal pomeriggio, provvedendo a condire braciole e pezzi di animali vari, disponendo tutto con cura su lunghi piatti ovali. L’espressione inquietante era quella del killer seriale. Lo avevo incenerito con lo sguardo. Lui, abituato alle mie smorfie di disgusto, aveva fatto altrettanto.
Anche l’allestimento del giardino faceva parte del rito: la preparazione della tavola, la scelta dei posti, la sistemazione delle luci e degli strumenti che, Renato e mio padre, avrebbero suonato dopo cena. Benché ci ritenessimo alternativi, mantenevamo inalterata la tradizione molto più di quei borghesi che amavamo deridere.
“Non è un fatto d’incoerenza, noi siamo diversi, diverso è il contenuto!” Aveva precisato Andrea con il dito indice alzato, rispondendo alle mie provocazioni di un tempo.
“Sì la tua, in effetti, è sicuramente un’insalata di pollo diversa!” Era stato il commento di Sara, moglie di Renato, specializzata in tartine e tramezzini battezzati ever green, tali da surclassare il resto della cena.
In un gioco perpetuo ognuno demoliva il piatto dell’altro.
A lei veniva attribuito il difetto di produrre sempre le stesse cose per il timore di non mantenere il medesimo successo. Ogni anno propinava tartine e squisite salse da abbinare a coreografici pinzimoni, ottenendo riconoscimenti scontati che le permettevano di giocare in casa. Dopodiché giudicava impropri, vino, dessert e qualunque altro piatto non provenisse dalla sua cucina.
Renato non aveva la stessa forza, era convinto di non saper fare niente, e come dargli torto? Così quell’estate faceva da baby sitter alla figlia di due anni, Arianna, rincorrendola per ogni dove, sentendosi giustificato per non aver preparato nulla.
“Come facevo con questa qui ?” Continuava a ripetere mentre la piccolina lo trascinava su e giù per il giardino.
“Come hai fatto gli altri anni”. Aveva sibilato Habel, stringendo gli occhi in una fessura, alludendo all’incapacità di Renato di produrre nulla, indipendentemente dalla figlia. Lui allestiva la location silenzioso e sistematico, mantenendo sotto controllo l’ordine e lo stato delle cose. Che fosse estate o inverno Habel portava una Sacher, che in quel momento occupava i due terzi del frigorifero, ostentando su di sé il mio nome e quello di mio padre. Una vergogna che non riuscivo a superare.
La Marghe invece sperimentava senza la paura di sbagliare. Aveva portato in tavola una specie di ratatouille fredda con una decisa presenza di aglio che accolsi con un sospiro, ma che fu invece molto apprezzata dai più.
Laura aveva continuato a punzecchiarmi: “Sai che bello quando ti baceremo tutti per gli auguri!”
“Non vorrai farlo davvero?” Mi atterriva solo l’idea delle zaffate.
La Marghe si era un po’ risentita:“Perché no? Cosa sarà mai!”
“No, così dicevo per scherzo”. Non avrei mai voluto inimicarmela, non lo meritava. Però tutto quell’aglio..
Quando ormai tutto era pronto, vidi mia madre sul cancello che non riusciva a districarsi dal nostro cane, eccitato da tutto quel via vai. Sembrava indeciso se acchiappare ciò che lei teneva in mano, presumibilmente cibo, o i genitali di Bruno. Era in ritardo, piena di pacchi, per niente imbarazzata da tutti gli amici di un tempo e dalla presenza di mio padre che sapeva averle dato della cretina per anni.
Mi sembrò che non se ne fosse mai andata. Entrò sorridendo. In una mano teneva sollevato un cabaret enorme di mignon e salatini, comprati nella miglior pasticceria del centro. Nell’altra teneva una borsa ingombrante da cui tirò fuori due pacchi: uno per me e uno per mio padre. Per finire ci mostrò anche un sacchettino che pareva una reliquia. Tirò fuori da lì una ventina di anelli con appese farfalle argentate dalle ali dipinte di colori diversi.
La voce di mio padre: “Cazzo sono?” Immaginai che fossimo da capo.
“Segnaposti”. Spiegò candidamente mia madre, iniziando ad avvolgerli attorno ai flute pronti per l’aperitivo. “Ve’ che belli!”
“Ah bè.. Certo .. Segnaposti! Come ho fatto a non capire!” Ecco l’ironia a cui, immaginai, sarebbe seguito qualcosa di peggio.
Invece, inaspettatamente, dopo un lungo interminabile attimo di silenzio, lo sentii pronunciare un “grazie” garbato, come non ricordavo da tempo. Mi sembrò di veder mia madre arrossire, mentre i nostri amici abbassavano lo sguardo, sollevati dagli impliciti segnali d’intesa tra lei e mio padre.
Dopo tutto quel tempo tornavamo nel cerchio che ci aveva uniti, benché diversi e con un anno in più. A turno andammo loro incontro per un bacio di benvenuto. Prima di assaggiare, per la fortuna di tutti, la strepitosa ratatouille della Marghe che, per quanto inspiegabilmente dal mio punto di vista, venne richiesta e proposta anche l’anno dopo.

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