Arriva per primo tra i clienti del bar. È di quelli che cenano presto, che anticipa i gesti di quelli che sfileranno più tardi. Uno alla volta, per il rito del caffè. Lo immagino nella consuetudine di giornate tutte uguali, muoversi lento, facendo attenzione a ciò che tocca, sfiorando delicato gli oggetti della sua vita.
La sua puntualità non ha a che vedere con le manie diffuse negli anziani di rendere il tempo, un quadro fatto di rigidi dettagli. È più una qualità, come la gentilezza, quel fare educato, sinceramente educato, che in mezzo a tutti fa pensare a qualcosa di buono.
Caffè macchiato con latte caldo. Gli sono quasi grata di presentarsi ogni sera con la medesima richiesta che gli anticipo, vedendolo arrivare. Non gli lascio neppure il tempo di esplicitarla mentre lui sorride compiaciuto. A volte mi viene il sospetto di essere io quella sopraffatta dai riti, di averli in qualche modo ricevuti come sacramenti e di preservarli come tali.
Angelo è una certezza, un rintocco di orologio, qualcosa che aspetti e che arriva. Minuto più, minuto meno.
“Tutto bene signora?”. Signora. È l’unico a chiamarmi così, benché conosca il mio nome, benché tutti gli altri si rivolgano con un tu scontato, confidenziale mentre mi viene rivolta una richiesta che non posso rifiutare. La sicurezza dei clienti abituali scivola nell’arroganza, e il tono rivela il diritto naturale di esigere. Per lui non è così.
Le mani un po’ gli tremano, ma è determinato ad andare fino in fondo, a farcela. Come i bambini che sperimentano le azioni, perpetuandole fino ad averne il controllo. Compie la sua azione serale, quella del caffè macchiato che, per chi non ha tempo, consiste unicamente in una sosta rapida. Due sorsate e via, per svanire nel dopo di giornate troppo corte. Lui di tempo ne ha e svolge con cura i gesti minuziosi che lo conducono a concedersi quel piccolo, profondo piacere che ne prelude un altro: quello della partita a carte.
Ma è ancora presto. Così si avvia verso i tavoli ancora vuoti, in cerca del quotidiano, guardandosi attorno. È curioso di trovare, con scarsissime probabilità, qualcosa di più interessante da leggere. Anche solo un giornale che vada oltre la cronaca locale.
Angelo assiste, spesso in silenzio, ai dibattiti accesi sui morti ammazzati. Un po’ perché il suo udito fa quel che può, un po’ perché la sua indole, che non gli permette di accanirsi con chiunque, gli consente solo pochi interventi di buon senso, per altro elusi o fatti cadere nel vuoto.
Sembra non appartenere al genere di clientela cui servo il caffè. Piuttosto ha il medesimo, elegante profilo di un vecchio signore di campagna, senza averne del tutto l’aria.
Una volta l’ho sorpreso mentre accarezzava il mio grosso libro, uno della serie di Harry Potter, buttato lì sul bancone. Ha sorriso, mi ha guardato e mi ha chiesto di cosa si trattava, trovandomi del tutto impreparata. Mi sono sentita dire impropriamente: “È un libro di fantasia.”
Altre volte invece ha chiesto il permesso, come sempre, di leggere un giornale che casualmente qualcuno di noi baristi aveva dimenticato. Eppure non è un intellettuale.
Ciò che so di lui è circoscritto a una manciata di cose dette nel tempo di un caffè e ai frammenti che colgo, quando il bar si anima quel tanto da distinguere ancora l’interlocutore. Prima che il sonoro diventi vociferare indistinto.
Mi sembra di ricordare che viene dal mondo contadino. L’ho sentito raccontare di quando era bambino e della madre che allevava bachi da seta, in una grande soffitta in campagna. Da noi qui è solo campagna e le persone della sua età, classe 1924, sarebbe un caso se non venissero da famiglie di contadini. A volte vorrei fermarmi e chiedergli di raccontare.
Credo che Angelo sia ancora capace di sorprendersi, di provare interesse per le cose, per ciò che non conosce. Potrebbe ancora farsi prendere in quel cerchio animato della vita che ai vecchi non è più concesso. È un peccato saperlo relegato a un mondo di cronaca spicciola che a lungo andare asciugherà i suoi pensieri. È così diverso.
Si guarda intorno: gli occhiali con la montatura in tartaruga, quelli di una volta, le lenti grandi e spesse, quelle che allargano gli occhi come se tutto fosse sorprendente. Sembra domandarsi cosa succede intorno, nel timore di perdersi qualcosa. Se gli parlo, è costretto a chiedermi di ripetere. “Come?”, interrogando il prossimo più con gli occhi che con la voce.
Ogni volta vorrei regolare il tono della voce, quel tanto che basta per non farlo sentire a disagio, evitando di rivolgermi a lui come se oltre che sordo fosse anche deficiente. Ma il dialogo vero va oltre le parole, così parliamo quel linguaggio che nessuno può sentire.
Mi riempio dei gesti, delle consuetudini, del suo posto in questo bar, delle conferme, del trascorrere del suo tempo. Mi rivolgo a lui, salutandolo con la mano, riservandogli quel fare garbato di cui mi compiaccio, quando tocco corde analoghe alle mie.
“Io ceno presto. Sono solo”. Mi spiace avvertire quella fitta impertinente, provocata dal suono di certe parole.
C’è una bontà in quest’uomo che mi spinge al di là di una sensazione di pena. Sono attorniata da anziani prevalentemente soli, ma lui no, non accetto che lo sia. Con una preoccupazione sincera, ho voluto accertarmi che non lo fosse del tutto e una volta gli ho chiesto se ha figli. Lui, orgoglioso, mi ha risposto di avere due figlie, sposate, organizzate, ognuna con una famiglia propria. Forse voleva rassicurarmi: è accudito quanto basta e riesce a badare a se stesso. Meglio. Non mi va di saperlo con il silenzio assoluto intorno. O addirittura davanti alla tivu.
Ho avuto la sensazione che il semplice fatto di interessarmi a lui, attraverso domande banali, gli procurasse un moto di soddisfazione. Magari non proprio per l’argomento, ma per l’opportunità di chiacchierare di sé, di sapere, raccontandosi in quelle piccole rivelazioni che determinano un profilo, una storia.
I contorni di Angelo si disegnano piano piano davanti a me, srotolandosi in immagini di un tempo dai colori seppiati. Un tempo in cui in questa città, in questo quartiere c’erano solo campi di cui oggi non restano che vecchie case patriarcali, disabitate, tagliate fuori dalla provinciale. Avrei voluto conoscerlo prima, per vedere la sua soffitta di gelsi e da lì guardare i campi coltivati.
Non chiede per primo di giocare a carte. Aspetta.
A poco a poco il bar inizia ad animarsi, in un alternarsi di gente al bancone per il caffè: decaffeinato, macchiato, amaro, dolcificato. Lui legge, estraneo al via vai e al brusio, alla leggera confusione di fondo, alle numerose voci indistinte. Probabilmente non le sente oppure non le ascolta. Di certo non costituiscono un fastidio.
È consapevole che di lì a poco qualcuno lo interromperà per chiedergli di giocare a carte. Non so se non riesce a chiedere o se ne sta lì a disposizione del prossimo. Sento che lo chiamano per nome e lui, pronto per entrare nel teatro di ogni sera, appoggia il giornale, allarga le sopracciglia. Alza lo sguardo, questa volta senza chiedere: “Come?”.
Si alza, sistema il giornale e privo di enfasi, con movimenti controllati, si accomoda al suo posto insieme a tre compagni. Così inizia la scena, quella che lo rimette in gara, collocandolo in posizione di partenza in quel viaggio serale per cui si è preparato.
I tavoli sono tutti occupati. Mentre continuo ad asciugare e ad allineare tazzine, compiendo azioni meccaniche, distinguo solo un rumore costante È simile al gorgoglio dei polli che in estate sale dai cortili. È soporifero.
Mi perdo in quei pensieri che si dipanano come in un dormiveglia rassicurato dalle voci. Non saprei dire cosa tiene insieme questi pensieri e da dove siano usciti, ma lascio che scorrano, senza fretta. Per una volta almeno tutto sembra poter rallentare.
A tratti un ruggito mi riporta ai tavoli che da qui controllo e assisto con l’assiduità di uno spettatore che ogni sera guarda lo stesso film. Qualcuno grida al compagno un insulto, accendendo l’atmosfera, sovrastando le voci sommesse di prima. Si entra nel vivo, urlando l’incapacità dell’uno, l’inadeguatezza dell’altro. Un crescendo di toni che mi scuote, obbligandomi a uscire dal torpore.
Angelo gioca, cercando di fare attenzione, provando a ricordare gli scarti e a calcolare qual è la mossa migliore. Sa che, comunque vada, sarà duramente ripreso da qualcuno che, dandogli sempre educatamente del voi, lo manderà a quel paese. “Ma che? Siete rimbambito?”. È la dura legge del Caffè Ragno per cui ci s’insulta e ci s’infama, senza esclusione di colpi allo scopo di vincere la partita.
Come fuochi d’artificio, volano raffiche d’improperi che accendono la corrente fra un tavolo e l’altro. A turno ognuno insulta l’altro, come da sempre nella vita del bar. Lui però incassa.
Lo vedo agitarsi sulla sedia, allargare le sopracciglia: “Come?”, chiedendo dove ha sbagliato, che cos’ha dimenticato. Non prova a difendersi, è dispiaciuto, confuso ed io provo una discreta rabbia verso il tizio che ha osato rimproverarlo.
A fine partita si avvicina di nuovo al bancone, riportandomi la quiete, pagando la sua quota se ha perso o riscuotendo la vincita: i biscotti per la colazione di domani.
“Signora, ho preso questi”. Alza il braccio, brandendo il suo trofeo. Ancora quell’emozione indesiderata, come se tutte le debolezze di una vita riaffiorassero alla coscienza, facendomi abbassare la guardia.
Lo osservo mentre si avvia verso l’uscita. Varca la porta a vetri, scompare per strada, in quella sua vita che non conosco, che avrei voluto incrociare e di cui mi è stato concesso solo un piccolo pezzo.
Mi rimarrà nel cuore, come tutti quelli che incontriamo occasionalmente per strada e un attimo dopo, senza nemmeno chiederci perché, non siamo più gli stessi. Rimarrà nel cuore come gli angeli di cui intuiamo, sorpresi, il frusciare lieve. Un delicato, impercettibile tocco d’ali che conserveremo in un ricordo, per tutta la vita.

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